"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

   

   

LA SETTIMANA DELLA CULTURA FOSSATESE 13/19/AGOSTO 2017

Per tradizione, l'Associazione Culturale, come ogni  anno nel mese di agosto 2017 effettuerà la Settimana della Cultura dedicata a scrittori fossatesi o di origine fossatese. Anche quest'anno saranno presenti nostri conterranei che presenteranno i loro libri e le loro opere letterarie ai compaesani (il nostro paese nel corso degli anni, anche se la maggior parte dei paesani non lo sa, ha dato i natali a tante persone che nel corso della loro vita sono diventati: scrittori, romanzieri, poeti e artisti). Quest'anno però la Manifestazione assumerà un'importanza internazionale, in quando la nostra Associazione ha allargato i suoi orizzonti, questa volta fino alla Repubblica di Cuba. Infatti sarà nostra ospite  a Fossato una Delegazione Ufficiale del Ministero della Cultura di Cuba, per un confronto tra la cultura e la tradizione dell'area Grecanica con quella della Repubblica di Cuba. La delegazione è composta dal Trio Dinoh, artisti esperti a livello internazionale della musica tradizionale cubana che allieteranno le nostre serate di cultura e dalla Signora Anita Margarita Morejòn Padròn Responsabile delle Relazioni Internazionali del Ministero della Cultura per l'Europa. Saranno serate di confronto, di scambio e di conoscenza delle nostre e delle loro tradizioni.

La lettera di accettazione del Ministero della Cultura di Cuba al nostro invito

PROGRAMMA DEFINITIVO SETTIMANA DELLA CULTURA FOSSATESE

"Il tempo era d’inverno”.

Ritorno in un paese del Sud.

 E’ un nostos, un ritorno particolarmente sentito quello raccontato da Santo Aquilino nella sua prima opera narrativa “Il tempo era d’inverno” che verrà presentata al pubblico la sera del 13 agosto 2017 alle ore 20,30 in piazza Leone Sgro a Fossato.

La serata fa parte di un programma di eventi incentrati sul recupero e la valorizzazione del patrimonio umano dei paesi dell’interno calabrese e in particolar modo delle realtà aspromontane che negli ultimi anni sono stati protagonisti passivi di un devastante spopolamento e di una altrettanto severa spoliazione del tessuto sociale e dei valori culturali.

Si parlava di opera narrativa in generale, ché difficilmente “Il tempo era d’inverno” si presta a essere collocato in uno dei generi canonici codificati. E’ l’autore stesso che tiene a precisare che non si tratta di opera autobiografica, ma di pura finzione che trae spunto e solo spunto da fatti, persone e cose che fanno parte del passato e che vengono trasfigurati e ricondotti alle necessità narrative. E’ un romanzo, un racconto lungo che - con un linguaggio che passa con facilità da una lingua di elevato registro al dialetto più antico e dimenticato, con un fraseggio ricercato e volutamente a tratti appesantito, soprattutto nella prima parte, accorgimento utile per non tralasciare dettagli ritenuti necessari - narra di un percorso a ritroso verso un passato amato e odiato, comunque vissuto e quasi ripudiato se non rimosso da un protagonista provato da recenti vicende personali  che stanno lentamente minando il suo equilibrio interiore e portando a uno stato critico di avvilimento e prostrazione. E’ la natura con il suo cuore generoso,  sono gli uomini della montagna con i loro riti, le loro bestie, la loro storia e la loro cultura, nel cuore dell’Aspromonte a smuovere “il groppo raggrumato dentro”. E’ poi il percorso obbligato che conduce in fine alla resa di conti aperti e non ancora chiusi con se stesso e con quello che si era rifiutato di seguirlo per le strade del mondo.

Questo il tema che permette all’autore – che parla in prima persona, ma non da protagonista – di richiamare la minuta storia di uno dei paesi alle falde dell’Aspromonte, attraverso fatti e vicende, talora picareschi ma di sorriso spesso amaro, di personaggi che se realmente esistiti sono trasfigurati dalla fantasia e adattati a paradigma, a modello di consimili individui rintracciabili in ogni nostro paese di montagna. Si parla di un paese, ma sono tutti i paesi coinvolti nel comune destino a essere chiamati in causa, è di loro che si parla, della loro storia, della loro gente e del loro lento degrado che spesso si conclude in un desolante abbandono, in una vergognosa desertificazione.

Attraverso questi personaggi passa la storia minuta  e privata, che in definitiva è la vera storia, vissuta da un popolo che ha subito la Storia dei “signori del potere e dei padroni del sangue” e che tale Storia continua a subire ancora senza averne nitida coscienza.  

E’ un percorso dovuto quello dell’autore, una strada temuta, rimandata, ma quasi obbligata, che alla fine conduce  all’incontro con il vecchio méntore  Cirivillino che lo sta aspettando accosto a una vecchia baracca, tra i solchi induriti di un orto in rovina.

Strada ardua, costellata da flash back concisi che tratteggiano con poche efficaci pennellate  avvenimenti, fatti , persone e cose che molti da tempo hanno dimenticato e che con forza riemergono in superficie dai fondali limacciosi del tempo. La piazza ombrosa di uno dei quartieri più antichi, teatro della varia umanità che la popola, come l’ingombrante Ninambrogio, protervo padrone dello slargo e autore di proclami pubblicitari che celebrano la gloria dei suoi attributi; i giocatori di briscola e di birilli; l’improbabile inglese dell’”americano”’ intento alla punta dei pali dei fagioli con il suo esilarante “sciarappa sanimabecci”;  le enormi terga di Salvo C. che quando “si muoveva sembrava un trasloco”;  la vecchia Cuore di Gesù che non perse mai una messa. Lungo il percorso per le tortuose vie del paese incontriamo la zia Maria, mai stata giovane, vedova di un altro “americano” di poca memoria; il rude e rancoroso  nonno, parco di parole e avaro di affetto; la severa e tonitruante voce di Aurelio Saffi sotto la robinia; don Toto, l’arguto giudice conciliatore, amministratore di giustizia popolare; il Podestà, simulacro di un onnipotente satrapo di provincia finito per terra e lasciato in lacrime a rinfrescare le chiappe sul ghiaccio di una nevicata; il pastore-massaro Finimondo, labbra amare e sguardo muschioso; il palazzotto in rovina della Guarna e la dilapidazione palingenetica di un enorme patrimonio accumulato con discutibili piratesche operazioni a danno di parenti e povera gente; il Segretario genitore di ben sette figlie femmine.

E in ultimo, sotto l’arancio dolce  nell’orto abbandonato,  l’incontro con Carmelo Cirivillino. Trai i solchi febbricitanti di sole, il vecchio maestro, ormai cieco e malridotto dagli anni, impartisce con toni epici la sua magistrale ultima lezione. 

Con il suo linguaggio colorito, talora in lingua per dare peso e forza ai concetti, ma più spesso attingendo al dialetto più antico Carmelo con aneddoti, storie e apologie gli svela la suggestione e la potenza delle parole, gli instilla l’amore per il racconto, gli impone la necessità della memoria e gli indica la via della guarigione dal malessere, che lo perseguita dal giorno della partenza, e la via della speranza. Tra le sterpaglie rinsecchite dei solchi di un orto in rovina, metafora di una Calabria abbandonata, appassita rosa nel bicchiere, pecora zoppa di improbabile redenzione.

 Santo Aquilino, Il tempo era d’inverno, Edizioni Nosside, Ardore Marina (RC), 2017 (pagg. 232, € 12,00)  

     

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