Per un amico
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Sento il bisogno, ed il dovere, di rendere omaggio alla memoria di
don Antonio Foti, di evocare la figura di un uomo che conoscevo da
sempre e con il quale ho avuto una lunga corrispondenza di affezione
sincera e disinteressata.
Non intendo tessere un elogio manierato e pomposo; affido, invece, i
miei sentimenti, il mio rimpianto. Le mie considerazioni, il mio
coinvolgimento emotivo ad una lettera. Una lettera che è il racconto
di una vita. Una lettera che resterà senza risposta.
Caro don Antonio,
i ricordi si stringono intorno a me come in una ragnatela che ha i
fili formati dalle immagini della memoria, che mi lampeggiano nella
mente, come se rivivessi la mia vita all’indietro.
E’ tempo stratificato nel tempo; sono flussi di nostalgie che
invadono il mio animo; sono fermenti di realtà e pensieri, teneri e
forti come eravate Voi.
Mi siete sempre piaciuto per la mancanza di doppiezza e di
presunzione, e per il dono di intuire la mentalità degli uomini.
Ho sempre ammirato in Voi il temperamento generoso, l’intelligenza
viva, la spontaneità e la semplicità: non tolleravate gli accessi di
alcun genere, rifiutavate gli insulsi rituali, imbalsamati da regole
e protocolli, così come non avevate bisogno di formali esteriorità e
di dichiarazioni convenzionali per manifestare la vostra
religiosità, la vostra coscienza cristiana. Senza saperlo avevate
fatto vostre le parole di Ignazio di Antiochia che diceva: <E’ più
importante essere cristiani che dirsi cristiani>.
Amavo la vostra indole paziente e gentile; eravate un uomo pratico,
risoluto e riservato, come il paese in cui siete nato.
Equilibrio, serenità e vigore trasparivano dal vostro sguardo;
sapevate sempre sorridere, ed ogni volta i vostri occhi si
illuminavano di calore ed umanità.
Avevate edificato la vostra vita attenendovi ad un codice morale
facile da riassumere: onestà, lealtà, correttezza, rispetto
dell’altro. Pieno di volontà di vivere tra e per la vostra famiglia,
avevate impegnato le vostre energie, il vostro spirito di
iniziativa, il vostro entusiasmo e la vostra tenace attività che
hanno sempre riempito e dato senso alla vostra esistenza.
Avete affrontato le difficoltà a viso aperto, con accortezza e
saggezza. Ammirevole la capacità di adattarvi nel migliore dei modi
alla buona ed alla cattiva sorte; ogni volta che, lungo il percorso
vi siete imbattuto in un bivio, avete sempre imboccato la strada più
dura, quella in salita, mai la strada più semplice, quella in
discesa, riuscendo a compensare i doni che la vita vi ha, talora,
negato.
Era il vostro modo di essere. Spesso mi sono chiesta quante persone
Voi foste; ed anche da Voi ho appreso che il vivere dipende dalla
nostra individualità, da quello che siamo e dalla coscienza del
nostro essere. Se non sai chi sei, come puoi trovare la tua vita?
Avete occupato uno spazio di tutto rilievo nella mia storia
personale, e, nel lento scorrere degli anni, mi siete stato amico.
Il sodalizio amicale, basato sull’autentica comprensione, rinsaldato
da anni e anni di affettuose frequentazioni, è divenuto più profondo
quando nella mia vita ci sono stati degli stalli e mi pareva che le
cose belle fossero per sempre fuggite. Le vostre parole, quali: “La
vita è un succedersi di dolori e di gioie”, ovvero “Ai tempi bui
seguono sempre periodi lieti”, sono state un messaggio di apertura
in positivo al futuro. Solo allorché mi ripetevate “Quando una porta
si chiude, un’altra porta si apre”, avrei voluto rispondervi “ Sì,
ma è duro mentre si sta nel corridoio, tra una porta e l’altra”. Vi
associo anche ai tempi felici, custodirò sempre, come un tesoro, e
bei momenti che abbiamo condiviso, ed una parte di me sarà lì, con
voi.
Mi auguravo che la vostra vecchiaia fosse serena, ma da cinque anni
la vita per Voi era una sofferenza; una sofferenza che solo
l’amorosa assistenza e le cure instancabili dei vostri familiari (in
particolare di Memè) e la dedizione di chi vi è stato accanto (mi
riferisco a Melina) hanno potuto, di quando in quando alleviare.
In questo lungo periodo, mai i nostri incontri si sono interrotti.
Eravate costretto a letto; profondo era il peso del tempo e del
dolore; le forze svanivano; la malattia, impietosa, vi aveva segnato
profondamente, vi aveva marcato le dita, asciugato il volto,
rimpicciolito ed incurvato il corpo. I vostri occhi, fissi sullo
schermo televisivo che, spesso, trasmetteva la S. Messa, erano
velati dalla tristezza, che non potevate nascondere; il vostro
sorriso era stentato, la vostra voce roca, la vostra espressione
ansiosa, ma il vostro animo era sempre lo stesso; pieno di affetto e
di premura. “Questa rimarrà sempre la vostra casa” mi dicevate. Nei
momenti di lucidità, sempre più rari, purtroppo, quasi parlando a
Voi stesso, ripetevate: “Ogni essere umano ha la sua porzione di
futuro già stabilita”; “L’uno dopo l’altro dobbiamo fare lo stesso
viaggio e non possiamo modificare niente”; “Sono pronto ad
affrontare la prova”. Chiedevate il mio consenso alle vostre
affermazioni, ed io ve le davo. Era come se ascoltassi la voce della
mia stessa anima, consapevole che tutto ciò che incomincia, finisce,
senza possibilità di replica, che nessuno di noi conosce l’ora e il
momento e che, perciò, bisogna tenere sempre “l’olio nella lanterna
ed i calzari legati”, secondo l’insegnamento del Vangelo.
Mi parlavate e, mentre vi stringevo le mani, mi scrutavate con uno
sguardo penetrante; era come se mi sbirciaste dentro e non vi
piacesse quello che vedevate: le lacrime nascoste, l’emozione
trattenuta a stento, lo sguardo sfuggente, le parole non dette.
Negli angoli della camera da letto, la penombra si stava infittendo
sempre più; i veli multicolori intorno a noi si stavano
assottigliando e si diramavano in spirali di luce nera; sospesa,
scivolava, e si chiudeva, su entrambi un’ala di mesta malinconia,
che preannunciava l’ineluttabile distacco. La morte avanzava a
conquistare ciò che la vita aveva costruito. E siete volato via,
avete varcato la linea d’ombra che ci separa dal mistero della
nostra vita, tra il compianto di coloro che vi hanno amato e
conosciuto. So, per prova, che nulla si sostituisce ad un buon
padre. Fossato, al quale avete consacrato l’esistenza, conserverà
nel numero delle persone più care, il vostro nome; amavate ogni
metro quadrato del Paese; era casa vostra in ogni senso.
Anche io sarò fedele alla vostra memoria; finché avrò vita sentirò l
vostra mancanza. Ho fede nei sacri vincoli che la morte non spezza:
la polvere non sparisce: è immortale; la pietra è eterna, perché
conserva i ricordi, e nulla si perde completamente finché noi (ed
altri dopo di noi) saremo custodi della vita dei nostri cari.
A Voi, don Antonio, che ora siete tra gli spiriti benedetti, va il
mio ultimo addio.
Nella Tripodi Zappia