IN RICORDO DI NINO SCARAMUZZINO
Nino portava i sandali
d’estate e la canottiera bianca. I pantaloni corti, ricavati con un
taglio sopra il ginocchio da quelli lunghi e pesanti dell’inverno. Come
tutti noi allora. Il ciuffo biondo sulla fronte, il sorriso enigmatico
delle sue sfingi e gli occhi di quei gatti che dipingeva sulle tele. Era
il nostro fratello più piccolo. Il più prezioso.
Correva l’anno 1969. Nino
giocò con noi il torneo dei rioni. Urgori la nostra squadra
raccogliticcia, orgoglio e vanto infantile di anni stenti. Non vinse con
noi: era diventato adulto anzitempo e partì su quei treni della
disperazione. Gli altri rimasti vincemmo una coppa di latta che poi,
molti anni dopo, già uomo fatto, gli mostrai: era anche sua. Mi
ringraziò grato.
Mistica, spirituale
nuvola in calzoni, capace ancora di grandi stupori, amico, di quelli che
sul serio ti fanno compagnia quando l’inverno bussa con mano pesante
alla porta delle nostre case d’Aspromonte. Ti parlava muto e il fuoco
del camino illuminava un volto acceso che bruciava di vita e di
pensieri.
Ma sapeva i tremori della
notte e non sedette mai con noi sul muro del Passo. Aspettava i bagliori
del mattino, compagni al suo sorriso. Paziente, possente, elegante come
i colori sulla tela oltre là dove monco si arresta l’occhio dell’uomo.
Milioni di pigmenti stretti in un solo minaccioso pugno di luce e di
malie.
Era la sua blusa da
bellimbusto, l’usuale corazza di passero da combattimento alla testa di
orde affamate, con la corona di spine delle rivoluzioni, senza tregua e
perdono all’eterno nemico di classe. Moschettiere proletario che mosse
tenace guerra a colui che nell’abito griffato d’ignoranza, implacabile,
impalpabile, funestava i nostri giorni, all’infame Tersìte senza qualità
che, da quella polverosa “pagina 56”, irrideva miserabile al colpo
d’ala, alle visioni oniriche, all’armonia piramidale, alle ombre
eloquenti dell’artista, alle taciute speranze dell’uomo.
- Quest’anno la vigna
promette. Vedrai che vino!
Me lo vedo a Barbaro
accarezzare con gli occhi foglie e tralci. In quella fiumara abbagliante
la sua minuta figura era un faro. Così mi apparve un giorno dall’alto di
Scifone in mezzo alle viti. Un gigante sulle crete.
Bevemmo il suo vino
giovane. Non era aspro come i nostri pensieri, i nostri ricordi.
Brillava di intenso rubino e molceva soporosi i sensi provati dalla
memoria. I ricordi sorridevano amici una volta tanto.
Bevemmo alla nostra
infanzia. Senza parole, muti. Bevemmo a quelli che non c’erano più ed
erano tanti, troppi. A zio Jerome e a Sandrino. A Pasquale, a Giorgio.
Ai nostri vecchi. Ma anche ai vivi. A Nino, il giovane compagno nella
Milano delle rivoluzioni perdute, tradite. E all’inconsapevole cultore
di esagerate idee di libertà che gli stava accanto.
S. A.
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