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PERSONAGGI FOSSATESI
La storia di Fossato è stata scritta nel bene e nel male con il passare
degli anni da gente comune, contadini, braccianti, qualche
professionista, qualche insegnante comunque attori diretti ed indiretti
della evoluzione economica, sociale e culturale del paese stesso. Per
quanto la mia memoria ricordi, senza fare torto a nessuno per gli anni
che vanno dagli anni 40 agli anni 70 i personaggi famosi secondo un mio
modesto giudizio sono:
FRANCESCO
SGRO’, CICCIO IL BIONDO, IL BARONE
Gli ultimi tempi Ciccio portava con orgoglio il cappello d’alpino
con le insegne di generale, regalo degli amici militari della
Taurinense. Lo conoscevano di fama e dopo aver parlato con lui al
telefono vollero tributargli quell’omaggio. E lui generosamente
ricambiò: un capicollo che i ragazzi mangiarono in Afganistan.
Di questo e di altro Ciccio era
orgoglioso.
“A te chi ti fa legge, Franzuà?”
“Andate piano, non dite sciocchezze.”
E rideva il Barone con occhi sornioni.
Talvolta esagerava nei fatti, ma amava parole assennate, rotonde, di
antica saggezza.
Aveva trascorso la gioventù di fuori:
a Milano, in Francia, in Svizzera. Era valente mastro muratore. Non
si era risparmiato nel lavoro. Poi era tornato con la sua compagna
quando la madre, Maria di Vicè, era morta.
Aveva ingrandito la casa, l’ultima di
Sant’Anna, in cima al paese. Viveva con i soldi messi da parte negli
anni e coltivando la terra che i genitori gli avevano lasciato.
Comprò anche altri terreni. Nella stalla allevava maiali, conigli,
galline.
Da Sant’Anna amava osservare la vita e
tutti gli amici di passaggio dovevano per forza fermarsi a bere il
suo vino, e mangiare nella baracca di mattoni accanto alla casa.
Fino a voglia.
Di sè diceva:
“Ho bevuto tutta l’Alsazia di birra e
nessuno mi ha mai visto ubriaco”.
Era vero.
Un’estate gli portammo un barilotto di
birra. Era con amici e verso l’alba finirono il vino e decisero di
provare la birra. Ma non riuscivano ad aprire il rubinetto.
Ciccio si rivolse egli amici:
“Iamu, pijjhiati dhocu. Datimi cca.”
E ficcò il coltello nella latta del
barile. Ma prima sotto aveva messo una capace bagnarola. Bevvero col
mestolo e non si perse manco una goccia. Poi Ciccio andò
tranquillamente a lavorare in campagna.
Uomo di grande spirito, sempre pronto
ai motti più salaci, accettava di buon grado gli scherzi. Una notte
legammo tra il suo balcone e un olivo di fronte, proprio sulla
strada, una tavola con scritto: “OSTERIA SGRO’”, con tanto di
freccia. Ciccio si svegliò, ma si limitò a guardare da dietro le
imposte. Completata l’opera ce ne andammo ignari. L’indomani mattina
passammo davanti alla sua casa. La tavola era ancora appesa al suo
posto. Ciccio se ne stava seduto addossato al muro.
“Ciao, Francesco. Che si fa?”
“Siamo qua... Sentite. Togliete
l’insegna del negozio che mi hanno detto che c’è la Finanza in giro.
Non vorrei che facessero il verbale ché siamo sprovvisti della
macchinetta degli scontrini fiscali.”
Questo era Ciccio. Persona
estremamente seria, ma nello stesso tempo dotata di grande senso
dell’umorismo.
Un grande amico, Francesco, per tutti;
per molti altri un fratello. Quelli di noi che avevano perso i
vecchi e non avevano più legami di sangue in paese, in casa sua
trovavano grande accoglienza e ospitalità. Ora che non c’è più, con
grande affetto lo ricordiamo e gli dedichiamo queste parole.
“Sereno sia il tuo sonno, amico,
perchè il tuo ricordo è grande come la tua generosità.”
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Francesco Sgro "U Biondu"
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Domenico
Tripodi "U Tinturi".
Una cinquantina di anni fa,
quando ero ancora bambino, sentivo raccontare spesso in casa del
mestiere di cumpari Micu U Tinturi. Cavaliere di Vittorio Veneto,
classe 1892, aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale. Rientrato
al paese, esercitava
il mestiere di tinturi. I racconti dei nostri
genitori dicono che prima del 1940 teneva bottega artigiana in una
viuzza (vinedha). In una gran quantità di grandi caldaie di rame,
sui tripodi, faceva bollire filati di vario colore: immagine ormai
troppo lontana nel tempo ed evanescente. Don Micu di tanto in tanto
si affacciava a dare un'occhiata e rimescolava i filati in ogni
caldaia; ognuna con il suo bastone levigato. La figliolanza si
affaccendava ad attizzare il fuoco sotto i tripodi. Non è possibile
sapere quale era il fissatore dei colori, né avere informazioni
sulle tecniche per ottenere le polveri. La natura forniva tutto o
quasi tutto. I materiali si reperivano sul posto; l'ingegno e la
tradizione ne consentivano la trasformazione. Otteneva i colori da
elementi naturali spontaneamente prodotti nelle campagne. Per ognuno
di essi U Tinturi conosceva bene la materia prima da utilizzare.
Naturalmente, solo lui, con la sua maestria ed il suo ingegno,
conosceva le giuste dosi da mescolare insieme per ottenere il colore
voluto. Dopo questa esperienza tintoria, don Micu divenne procaccia
postale. Ritirava la posta alla stazione di Saline e la distribuiva
agli uffici di Montebello e Fossato. Come mezzo di trasporto aveva
una mula che, con il passare del tempo e a causa delle inclemenze
del tempo, divenne zoppa. Una volta giunto a Fossato, si curava
anche dell’appalto ottenuto per la distribuzione della
corrispondenza negli abitati di Embrisi e Trunca. Ebbe anche una
botteguccia di generi alimentari gestita dalla moglie, cummari 'Ntunina
e da suo figlio Eugenio. Proverbiale era la sua puntualità, tanto
che, come si raccontava, quando da Saline veniva su verso Fossato,
la gente che abitava nelle campagne che attraversava non aveva
bisogno di orologio – ammesso che a quei tempi qualcuno potesse
permetterselo.
“Sta passandu don Micu U
Tinturi, allora devono essere le otto e mezza, massimo le nove.”
Anche il medico Paolo Tripodi
ricorda la mula zoppa in alcune rime satiriche.
“Il supplente postale e il postino
non sono svelti nel loro cammino,
ma la posta ritarda e rincula,
era zoppa perfino anche la mula.”
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Tempo addietro sono andato a trovare cumpari Melu Tripodi "U
Tinturi", il bigliettaio della nostra gioventù. Ancora stava
abbastanza bene e oggi che non c'è più mi corre l'obbligo di citare
l'origine di queste rime scritte dal dottor
Paolo Tripodi. A cumpari don Melu
chiesi di raccontare della sua gioventù. Ricordava poco e nulla, o
non aveva voglia di miscitare nel passato. Poi tutto d'un fiato mi
disse:
“Cumpari, prendete carta e penna e scrivete.
Queste sono poesie del medico Tripodi che all'improvviso mi tornano
alla mente. A quel tempo il dottore ci faceva recitare quello che
scriveva, anche piccole commedie teatrali. Io solo questo mi
ricordo. Scrivete.
Nel 1947 arrivò per la prima volta l'autobus a Fossato. Il medico
Tripodi ebbe modo di scrivere questa quartina:
Arriva l'autobussu finu 'nda sti chiani,
allura nui non simu cchiù cafuni.
Purtaru a civiltà finu a Juvani,
di sacchi, scirpitedhi e bumbuluni.
Un'altra quartina è dedicata a Cicciu Zumbu che faceva il
calzolaio:
Abbiamo Franco Zumbo il nostro calzolaio,
lavura notti e jiornu ma non ripara 'n mìparu.
Poi rrivinu i clienti, su pronti tutti quanti,
non vogghjiu fari nenti chi vonnu tutti
franchi.
Per il supplente postale A. Calabrò, per il postino mastru
Cunsulatu Pellicanò e la mula del procaccia Micu u Tinturi, tutti e
tre zoppi:
Il supplente postale e il postino
sono svelti nel loro cammino,
ma la posta ritarda e rincula,
era zoppa perfino anche la mula.
Per mastru Cunsulatu Pellicanò:
Abbiamo mastru Cunsulatu, l'eterno fidanzato,
e corto e piccolino, fate largo che è il
postino.
Per il segretario F. Pellicanò:
Segretariu non jiti i fretta,
state a sentire la vostra strofetta.
Il proverbio l'avete già imparato,
siete corto ma male cavato.
Per l'ufficiale postale, u zzi Don Ninu, sofferente di acido urico:
L'ufficiale cammina spedito
gli fa male nel piede e nel dito
ogni sasso che prende per la via
lui grida aiaia, aiaia mia.
La modernità arriva a Fossato:
Li casi di Fussatu cui i capisci,
ogni mumentu un palazzu nasci.
Li tetti quali addi e quali 'mbasci,
i mura su pittati jianchi e lisci.
Altro non ricordo più. Sono passati tanti anni. Troppi.”
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Leonardo Scaramozzino
LA FORD CORTINA
Cari Fussatoti con
questo scritto non voglio fare una dissertazione tecnica sul modello di
automobile di cui al testo, bensì approfittare di essa per introdurre un
discorso che fa ritornare alla memoria una persona che nelle foto delle
pagine di Franco ricorre molto spesso e che, secondo me, merita di
essere ricordato ed inserito tra i personaggi di Fossato. Non molto alto
di statura, robustello, con una bella chioma di capelli neri sempre in
ordine e dei sottili baffetti sempre ben curati. Lo vediamo circondato
da altri giovani coetanei, ma soprattutto ragazzi ancor più giovani che
stavano bene in sua compagnia. Lo vediamo su un asino con le cofenelle
di sicurezza, in contrada “Livitu”, quando da quelle parti c’era solo la
fiumara di Racale, in tutta la sua larghezza, ed ancora non si vedevano
costruzioni. Lo vediamo insieme alla figlioletta, insieme alla moglie,
insieme a tante altre persone, e quello che colpisce della sua persona
è sempre il suo sorriso ed il suo ottimismo che traspare da quel
sorriso. Eppure la vita non fu benevola nei suoi confronti. Viveva con i
genitori e le altre persone di famiglia in una casetta di campagna in
località “Crivini” così come un po’ tutte le famiglie durante il periodo
della seconda grande guerra, ed anche dopo. Un giorno un acquazzone lo
sorprese in aperta campagna e quando rientrò era tutto inzuppato. La
mamma gli accese un fuocherello in un angolo della piccola stanza di
campagna e lo fece distendere in modo che si asciugasse e si liberasse
dall’umidità. Ma egli si addormentò e quando cominciò ad avvertire il
bruciore ai piedi era troppo tardi per rimediare ai danni che il fuoco
aveva provocato. Certo ritrovarsi a quindici anni con i piedi
carbonizzati fu una esperienza scioccante. Il padre del ragazzo, pur
sgomento della tragedia capitata, non si perse d’animo. Improvvisò una
barella con due lunghi bastoni di legno stagionato e alcuni grandi
sacchi, di quelli che si usavano per le foglie di “ruvulu”, scucendo la
parte inferiore e facendo passare all’interno i due lunghi bastoni,
bloccandoli ai sacchi alla meno peggio con della “liame” attorcigliata.
La voce dell’incidente si sparse in un baleno e molta gente si riunì
nella piccola casa di campagna. Il padre offrì un premio in denaro a chi
si incaricava di portare il ragazzo in ospedale. Otto robusti giovani si
offrirono. Quattro per il trasporto ed altri quattro per dare il cambio,
per evitare soste. Ma molti altri li seguirono, in caso di bisogno. I
giovani, appena rientrati dalla grande guerra, erano abituati a marciare
molto speditamente. Sincronizzati i passi partirono lungo la via più
breve, la fiumara del torrente Sant’Elia, attraverso la stretto di
Montebello. La corsa all’Ospedale di Melito, non servì molto a
risolvere il problema della necrosi incipiente. Solo il bisturi del
chirurgo evitò danni maggiori. Ma la parte carbonizzata dovette essere
asportata. Il suo calvario durò a lungo, con notevoli sofferenze. Fu
portato perfino a Bologna, presso un Ospedale specializzato, dove fu
curato per lungo tempo, fino a quando i medici e i tecnici ortopedici
riuscirono ad approntare delle protesi che gli consentirono di
rimettersi in piedi e riprendere a camminare con l’aiuto di un bastone
di appoggio, dopo anni di carrozzella. Guardando attentamente le
fotografie si notano perfettamente le sue scarpe ortopediche. Nonostante
questa disgrazia non perse mai il sorriso e la volontà di andare avanti.
Si fece anche la sua bella fuga d’amore, con la sua innamorata, da
Gurgori a Capane, in groppa all’asinello che suo fratello guidò fino
alla casetta di una zia che diede loro ospitalità. Formò la sua famiglia
adoperandosi come poteva per tirarla avanti. Con il Patronato dei
Coltivatori Diretti, aiutò tanti compaesani a sbrogliare le faccende
burocratiche con l’Ufficio di Collocamento e la sede della Coldiretti
di Reggio, viaggiando con l’autobus o con mezzi di fortuna. Quante volte
l’abbiamo visto salire a piedi da piazza Carmine fino a via Possidonea,
facendosi forza con quel bastone! Nel 1967 suo fratello Peppe (il
caciondolo) gli lasciò la famosa Ford Cortina che aveva portato dalla
Francia, risolvendo i problemi della viaggiabilità. La prima persona a
guidare la Cortina fu il sig. Carmelo Pellicanò (Cacafocu), che poi
divenne suo “sumbettiru” (consuocero). Ma, appena presa la patente
Franco ed il sottoscritto Francesco, La Ford Cortina fu cosa nostra. E
dopo ogni viaggio: “pani ca suppizzata e vinu a volontà, oppure pasta o
furnu, chi Pascaledha a sapiva cucinari bbona”. Non vi ho ancora
scritto il nome di questa persona, ma l’ ho fatto di proposito, perché
penso che già abbiate capito che si tratta di Leonardo Scaramozzino dì “cutrumista”,
papà di Margherita e di Ambrogio. La Signora con la falce, purtroppo, lo
portò via da questo mondo quando non aveva ancora cinquant’anni. Di lui
rimane il ricordo delle sue sofferenze, affrontate con grande dignità,
non lasciandosi prendere dalla depressione, il ricordo della sua bontà
d’animo, della sua giovialità, e la voglia di stare con i giovani. Non
dimentichiamolo!
Francesco Pellicanò. |
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