A
prima vota nda zzimba
Tutti i
Fussatoti chi non trasiru mai ndi na zzimba, sunnu
prijati mi jazzinu a manu, cu cartillinu ggiallu è prontu e
pi chidhi chi ndannu l’età mmia è prontu puru u cartillinu
rrussu.
Lasciamo da
parte gli scherzi, questa è una storia vera, autobiografica,
vera fino all’inverosimile e può essere la storia di ognuno
di noi. Tutti, chi prima e chi dopo, abbiamo fatto il maiale
e per fare il maiale la prima cosa da fare era quella di
entrare nella “zzimba”. Ma andiamo con ordine e
cominciamo dall’inizio. Nel nostro paese crescere il maiale
era quasi un dovere, un obbligo; chi non ce la faceva a
crescere il maiale voleva dire che se la passava proprio
male, ma erano molto rari questi casi. In un modo o in un
altro la carne di maiale l’assaggiavano tutti. La nostra
zzimba era abbastanza comoda per ospitare anche due
suini. Aveva due stanzette, l’angolo per i bisogni, e la
zona dello “scifo”. Due maialotti ci stavano
comodi, anche perché, sentivo dire che uno solo cresceva
male senza compagnia, e così compravamo sempre due. Ricordo
che quando “u purcidharu” li portava e li metteva
nella zzimba, i due porcellini erano quasi uguali,
sembravano quasi gemelli, ma a volte non erano figli della
stessa “troiata” e uno più prepotente prendeva il
sopravvento sull’altro. Dopo i primi giorni di timidezza e
anche di digiuno, presa confidenza con la nuova casa,
cominciavano a farsi sentire reclamando il cibo. I loro
grugniti si sentivano da lontano all’ora dei pasti e quando
lo scifo veniva riempito di “mbiviruni”, tutti
e due si precipitavano senza ritegno mettendo anche i piedi
dentro. Spinte, accenni di morsi, tra di loro era una lotta
continua per arrivare primi alla “canigghia”
mescolata nell’acqua. Acqua e canigghia, per un po’
di giorni, per abituarli a bere e per non costiparli. E,
come dicevo prima, uno dei due aveva un po’ di forza in più
e allontanava l’altro e quando era sazio gli cedeva il posto
e “i restatini”. Così per qualche settimana. Quando
poi si cominciava a mettere qualcosa di più solido e
consistente, non più dentro lo scifo, ma sparso per
terra nella prima stanzetta, le cose si riequilibravano,
c’era posto per entrambi e chi non mangiava voleva dire che
non aveva fame. Ma trovalo un maiale che non ha fame! Se non
mangiava voleva dire che stava male ed era necessario
l’intervento del Veterinario. Le famiglie ci tenevano
ai maiali più che ad ogni altra specie di animali.
Scecchi, crapi, pecuri, jadhini, jadhi,
jadhuzzi e puricini, crapetti e muntunedhi, che facevano
parte della corte famigliare, passavano in secondo ordine
rispetto ai maiali. Imperava l’antico detto popolare “Cu’
si marita è cuntentu ‘nghjornu, ma cu’ mmazza
’nporcu è cuntentu n’annu”, e se i porci erano due era
ancora meglio. Mangiavano di tutto, onnivori ! Le
campagne, gli orti, ben coltivati, producevano ogni ben di
Dio, e, dopo le necessità della famiglia, i maiali venivano
per primi. “Mmbrazzati i cavuli, panarati i gghianda,
castagni e castagnoli, cufinedhi i ficarazzzi, cuzzuli, pira
i tutti i qualità, stedhi i pittara tagghiati a strisci,
acqua e canigghia e mbiviruni du cucinatu, Tutto per i
maiali, e loro non rifiutavano niente. Erano trattati bene,
ogni giorno la pulizia delle stanze e qualche volta anche la
doccia, soprattutto nella calde giornate estive. I nostri
mammi e i nostri patri aspettavano per vedere quando ai
maiali “nci calava a vintrisca”, segno evidente che
mangiavano a sazietà e mettevano peso velocemente. Tra
novembre e dicembre ingrassavano di un chilo al giorno,
dicevano i nonni. In otto mesi passavano da trenta chili,
(quaranta diceva u purcidharu), a centottanta,
duecento e anche più, dipendeva anche dal “mangime”.
Ma sempre uno dei due aveva un bel po’ di chili in più.
Quando si
avvicinavano le feste di Natale, nella case cominciava il
fermento con tutti i preparativi per il giorno di santo
Stefano, giorno dei maiali. “Tijani, tijanedhi, limbi,
limbicedhi, bbrocci, cutedhi, cucchjari e
cucchjarini, cannistri, cannistredhi, fusti, caddaredhi e a
caddara pi frittuli a purtata i manu”. I figghjoli mi
girinu a mola, cu papà avi a mmulari i cutedhi e a sciuni pi
porci. Il nostro compito era quello di girare la mola,
sembrava facile. La mola girava veloce nel suo bagno
d’acqua, ma appena nostro padre appoggiava il coltello la
mola rallentava come se avesse il freno a mano tirato. Il
nostro orgoglio non ci permetteva di dire che non ce la
facevamo, ma lui se ne accorgeva e per toglierci d’impaccio
ci suggeriva di darci il cambio, così lavoravamo tutti. Ma
il giorno ventisei dicembre, zitti e buoni, guardavamo dal
balcone tutte le fasi della macellazione. Il maiale legato
ad un piede con una robusta corda veniva tirato fuori dalla
zzimba quasi di forza e portato nella parte larga del
cortile, lontano dal tripodu che teneva il fusto con
l’acqua che bolliva, poi la corda veniva passata sotto la
pancia del maiale, dalla parte opposta al piede, e, al
“pronti via”, veniva tirata con forza facendo cadere il
maiale per terra. Subito quattro, cinque persone, tutti
parenti, si avventavano sul maiale per immobilizzarlo.
Qualcuno puntava il ginocchio sul collo per tenere ferma la
testa, chi lo teneva per la coda, chi lo bloccava dal dorso
facendo forza con tutto il suo peso poi si legavano le
zampe. La stessa corda, stretta al piede destro davanti
veniva attorcigliata due volte dietro il ginocchio
posteriore sinistro tirato in avanti, annodata al piede
sinistro anteriore ripiegato all’indietro, passata doppia
sul ginocchio posteriore destro e ripassata in avanti per
il nodo finale. Il povero maiale “mpasturiatu” in
quel modo, non aveva neanche sazio di “sbrazziari”,
volendo considerare braccia le sue zampe. Si limitava ad
emettere urla e grugniti come fanno tutti i maiali quando
sentono la fine vicina. Dal balcone vedevamo quei parenti
tutti addosso al maiale, ma non riuscivano a capire perché
nostro padre gli legava la “brogna” con il ferro
filato a doppia passata, forse per paura che mordesse? No,
non aveva questa paura. Quella legatura serviva per far
tenere la bocca chiusa al maiale, in quanto gli doveva
sollevare la testa col suo avambraccio e, al momento
opportuno, con la lama del coltello doveva indirizzare il
flusso del sangue che usciva dalla “scannarìa”. Il
sangue veniva raccolto in un “tijanu i straci”,
rimescolato in continuazione con un “cannolo” per
evitare che si coagulasse in fretta, poi veniva “consato”
con “ passuli, nuci, mmenduli e nu pocu i zzuccuru mu
nducisci”. Veniva intanto preparato un pezzo di “budedhu”,
bene legato da una parte, riempito di questo miscuglio,
legato infine dall’altro capo, e messo a bollire nell’acqua,
per far “u sangunazzu”. Dopo la legata del
muso, con la tinagghia che turciuniava il
ferro filato, veniva il bello perché bisognava prendere il
maiale di peso e metterlo sul banco per lo scannamento e non
era una cosa facile perché scivolava da tutte le parti.
“Prendetelo dai piedi, tiratelo dalla coda, fate forza con
le orecchie (del maiale), forza, forza che ce
l’abbiamo fatta”! Una bella sudata, il maiale mica
stava fermo, ma quel giorno non era il giorno della
rinuncia, tutto andava fatto come era destino. Tutti in
paese, quel giorno, osservavano la stessa regola. La povera
bestia, in pratica, moriva per dissanguamento. La lunga lama
del coltello, agitata all’interno del collo, recideva tutto
quello che incontrava, fino alla fine. Quando non dava più
segni di vita, per maggiore sicurezza, veniva fatta la prova
dell’acqua bollente. Con una “bucaletta” si versava
un po’ di acqua bollente all’interno dell’orecchio del
maiale e se questo non faceva “movimenti”, voleva
dire che era veramente finita. Allora si scioglievano le
corde, compresa quella che lo teneva legato al banco per non
farlo cadere, si toglieva il ferro filato dal muso e si
iniziavano la manovre di raschiamento con coltelli
affilati e acqua bollente al punto giusto, se no si poteva “scaddariari”
e non mundava bbonu. Testa, piedi, “ngunagghi e
vintrisca” erano la parti più difficili, il resto era
tutta autostrada. Pelato ben bene, si appendeva, si “stricava”
con arance e sale per una maggiore igiene, si spaccava in
due minzine e poi i due parenti più robusti se le
caricavano sulle spalle, le portavano dentro una stanza
bella grande e ripulita per l’occasione le posavano sul “letto
del pane”.
Non vado più
avanti con la descrizione di quanto succedeva in seguito.
Quanto scritto finora raffigura la prima mezza giornata
del ventisei dicembre. Entro mezzogiorno, al massimo l’una,
“i porci erunu intra”. Il seguito della prima
giornata e delle giornate successive è stato ben descritto e
ampiamente documentato, con chiarissime foto, da Mimmo, il
nostro “WM, sul nostro sito, alle
pagine dedicate alla tradizione del maiale, quindi non mi
sovrappongo, ma continuo con la mia esperienza personale, di
quando, per la prima volta ho fatto il maiale.
Quanto sopra
durò per molti anni, fino a quando papà, divenuto anziano ed
affetto dal bislacco morbo di Dupuytren bilaterale che gli
causava la retrazione dell’aponeurosi palmare, che è
il tessuto fibroso situato tra la pelle del palmo della mano
e i tendini flessori della stessa mano. In parole povere
questa malattia non gli permetteva più di aprire le mani,
perché quel tessuto si accorciava e si irrigidiva,
impedendogli di fatto l’uso naturale delle mani. Conseguenza
per noi figli era che se ci mollava un ceffone, perché ce lo
meritavamo, in faccia ci arrivava un bel pugno. Ma noi
facevamo di tutto per non meritarlo.
Non potendo
più nostro padre, toccò a noi figli prendere il suo posto
nelle “tre giornate del maiale”, sempre sotto la sua
guida. Per alcuni anni ci veniva in aiuto, solo per la prima
mezza giornata, qualche vicino di casa, qualche parente ed
anche mio cognato “Cunci”, ma poi il nostro
orgoglio prese il sopravvento e ci organizzammo
in famiglia a fare la festa. Era veramente una festa! Tra
fratelli, sorelle, cognati e nipoti eravamo una “caterbia”.
C’era personale e “vanzava”. E c’era anche un
problema, un grosso problema. Avevamo fatto esperienza con i
coltelli, partendo dall’ autostrada, proseguendo con
i piedi, passando per la vintrisca ed anche la
testa, ma non avevamo mai avuto l’esperienza della
zzimba. Eppure bisognava cominciare, ma quello che
cominciò furono le discussioni su chi toccava entrare per
legare il porco e portarlo fuori. Il fratello più
grande si fece “arrasso”, giustificandosi che una
volta si era rotto un dito e gli era rimasto il trauma, Mico,
il piccolo si giustificò dicendo che non sapeva fare il nodo
“alla bovina”, nodo che il sottoscritto sapeva fare
ma non ricordava come si faceva. Il nipote più grande si
offrì volontario. Meno male, pensammo tutti, il problema
della zzimba è risolto. Risolto un bel cavolo! Il
nipote si offriva, allungando il suo piede a fare da cavia,
per farmi ricordare come si faceva il nodo, insistendo a
provare e riprovare fino a quando ero sicuro di non
scordarmelo. Avete ormai capito tutti che ad entrare nella
zzimba toccava a me, il più “coraggioso” ( ???
). E poi loro sostenevano che i maiali mi conoscevano
meglio, avendo qualche volta riempito lo scifo e
pulito le stanze, quindi c’era più confidenza.
Baldanzoso presi la corda, feci un bel nodo al capo e con la
“tianella col panicolo” entrai nella zzimba.
“Pruci, pruci”, la mia voce chiamava per invitarli ad
uscire dalla stanza interna. Mi ero messo nell’angolo dello
scifo sperando per il meglio. Ma quando li vidi
uscire sembravano più grossi del solito. I miei sessanta
chili contro gli oltre trecentocinquanta di tutti e due.
Impossibile. Le mie ginocchia non sembravano avere la forza
di sostenermi, la pancia fece qualche movimento e io feci
appena in tempo ad uscire dalla zzimba e correre al
gabinetto, chiedendo carta. Proprio appena in tempo. Quando
fui sicuro che non c’era più niente che poteva giocare
brutti scherzi, tornai a fare quello che tutti si
aspettavano che io facessi. Entrare di nuovo nella zzimba,
legare un maiale, il più grosso per primo mi raccomandavano,
e portarlo fuori. Le ginocchia ancora “giacomeggiavano”,
ma mi feci coraggio ed entrai, facendo finta di non notare
gli sguardi sfiduciati degli assistenti. Presi la
tianella col panicolo, facendo un po’ di “ scruscio”
per attirare l’attenzione dei maiali e farli avvicinare,
cose che fecero con la speranza di mettere qualcosa sotto i
denti dopo due giorni di digiuno forzato. Aspettai qualche
minuto fermo dentro lo scifo per farli abituare alla
mia presenza, cominciai a parlare con loro: buoni, state
quieti, non vi movete, uno alla volta vi porto a prendere
una boccata d’aria, siete stati chiusi qui dentro per più di
otto mesi, ora vi porto fuori, eccetera, eccetera, eccetera.
Parlavo più a me stesso che a loro. Loro certo non potevano
capire, anche se, nella scala dell’intelligenza, erano ben
messi verso i primi posti. Il mio parlare, qualche
grattatina con le unghie nel mezzo delle “palitte”,
sulle spalle, un punto estremamente sensibile e piacevole
per loro li ammansì, mi avvicinai e tentai di annodare la
corda al piede destro del più vicino. Non era facile, appena
si sentiva sfiorato dalla corda piegava la zampa e la
allontanava, ma non mi persi d’animo. Al secondo tentativo
gli annodai la corda senza sfiorarlo. Fatto! Era mio! Provò
a strattonare, ma più tirava e più stringeva. Era questa la
caratteristica di quel tipo di nodo. Il difficile venne al
momento di portarlo fuori, con il cancello che si apriva
verso l’interno. Lì, chiamai la truppa, che si era tenuta a
distanza per non disturbare l’operazione “chiacco al
piede “, allungai loro la corda sopra il cancelletto
raccomandando di tirare forte al mio ordine, non subito
perché il maiale, se si sente tirato punta i piedi e non si
schioda. Ormai dentro la zzimba avevo ripreso tutto
il controllo di me stesso e tenevo in mano la situazione:
Veramente tenevo il piccolo cancello di ferro e aspettavo
che il maiale si allontanasse un pochino per aprirlo e non
appena lo fece diedi il via per tirare la corda mentre
spingevo da dietro il maiale per fargli saltare il gradino
dell’ingresso, richiudendo subito, perché la bestia tentava
di rientrare. Calmi, prendiamo fiato, ormai il primo passo è
fatto. Poi un altro sforzo per trascinarlo di peso fino al
punto X.
Il punto X era
quella parte del cortile un po’ più larga, dove , murata al
muro della casa, c’era la “bbuccula” che serviva per
legare lo scecco, per “mbardarlo e legare le cofinelle”
prima di partire per la campagna oppure per scaricarlo
al ritorno. Per evitare tutte le manovre e la fatica dello “mpasturiamentu”,
sperimentammo di passare la corda nella “buccula” e
tenerla stirante, tenendoci a distanza di sicurezza. Però il
maiale non ci faceva avvicinare, muoveva troppo la testa ed
era difficile posizionare il coltello al punto giusto. Ci
tornò alla memoria che tanto tempo prima il “Veterino”,
per fare una puntura di pennicillina ad un maiale
ammalato, usò una cordicella con il nodo a
“stringiallenta” che infilò dentro la bocca dell’animale
all’interno “di scagghiuni”, sulla mascella
superiore, facendola tenere bella stirante. Ci spiegò che
quello era un punto debole del maiale, così si immobilizzava
e non faceva “screpiti”, permettendo di fare la
puntura. Memori di questo usammo anche noi la cordicella,
facendo passare anche quella nella “bbuccula”
insieme alla corda del piede. Funzionò. Il maiale rimase
abbastanza fermo da permettermi l’uso del coltello. Centrato
al primo colpo, nel tempo di un minuto la sua vita se ne
andò insieme al suo sangue che sgorgava a fiotti dalla “scannarìa”.
Metterlo sul banco non fu difficile, avevamo a disposizione
due bacchette di ferro da ventiquattro abbastanza lunghe che
posammo per terra, e rigirammo il maiale in modo che le
bacchette si trovassero sotto, poi, partecipando un po’
tutti allo sforzo, lo sollevammo senza tanti patimenti. Il
mio compito per il momento era finito, ormai “mastro di
coltello”, lasciai agli altri il lavoro di “raschiamento”,
per riprendere in mano il coltello al momento in cui il
maiale, appeso al “gambedhu”, doveva essere svuotato
delle interiora e tagliato in due minzine, ma siccome
nessuno di noi era “ mastru di sciuni” ci inventammo
l’uso della “mazzetta” da 750 gr. per battere sulla
sciuni tenuta ferma sulla saldatura della coste.e
lungo tutta la colonna vertebrale, così non facevamo danni
alle “longhe”. Portare le due minzine dentro
non fu difficile. Allentavano la corda che teneva il
gambedhu al “travo”, facendo scivolare il tutto
sul banco, col coltello facevamo degli intagli sulle
minzine, tipo “manichedhe”, senza fare danni, e
infilando le mani facevamo presa un po’ ciascuno, ripartendo
il peso e lo portavamo dentro. “Fora u primu”, anzi
no, “intra u primu”. Pigghjamu nu pocu i fiatu, nu
pitraledhu e menzu bicchèri i vinu e po’ jamu pu sicundu”.
Dopo il primo doveva essere più facile, ma noi avevamo
fatto i conti senza sentire il parere del porco. Il secondo,
sentendo tutto quel baccano si era rintanato nella stanza
interna e non voleva sentire ragioni per uscire. “Si nda’
curaggiu, trasi tu ccà intra”, sembrava dire guardandomi
di traverso mentre entravo con la corda per legarlo. Tanto
lui non usciva, stava bene dov’era anche se il suo stomaco
vuoto gli faceva sentire i morsi della fame. Dovevo entrare
per forza, con molta circospezione, perché se all’improvviso
decideva di uscire mi “ fracanìava” tutto contro il
muro della stretta entrata. Non c’era verso, non mi
permetteva di avvicinarmi, si posizionava con il muso basso
verso un angolo, girandomi il “culo”, e se mi
avvicinavo da destra, lui si girava a sinistra, se andavo da
sinistra si girava a destra, “senza compromessi con il
centro”. Dopo alcune giravolte, stanco di questo
balletto, chiamai Mico e gli dissi di portare la cordina per
il muso e il coltello “scannaturi”, ma non il solito
bensì quello che somigliava al “pugnale degli alpini”,
più resistente in caso di bruschi movimenti. Mico venne con
quanto avevo chiesto, chiedendo se anche lui doveva entrare
nella zzimba. Certo che devi entrare, gli dissi e lui
entrò, ma, come gli studenti, chiese il permesso di uscire,
dirigendosi verso il gabinetto chiedendo carta. In attesa
del suo rientro nella zzimba avevo fatto un po’ di
scruscio con il panicolo intra o tijanedhu,
facendo venire l’acquolina in bocca al maiale che
ingenuamente si girò verso di me. Era quello che aspettavo.
Lasciai da parte la corda lunga e “a sgannamento” gli
infilai la cordina dentro la bocca nella mascella superiore,
spingendola fino al superamento “di scagghiuni”, la
tirai con forza e l’allungai a Mico che, “stramente”
era tornato e mentre lui la teneva stirante verso l’alto, il
collo del maiale era tutto per me. Un solo colpo, un po’ a
sinistra del pomo d’Adamo, verso la spalla, ben assestato e
profondo fu sufficiente. Slegammo velocemente la cordina dal
muso lasciandolo libero. Si quietò subito, mentre il suo
sangue colava a fiotti. Lo lasciammo solo in quella stanza.
Man mano che le forze lo abbandonavano si accasciò sul
pavimento senza neanche accorgersi che la morte portava via
la sua vita. Trascinarlo fuori fu facile, non faceva più
resistenza, il suo corpo scivolava sull’impiantito a “nsilicata”.
Il seguito si svolse come per il primo. Nel corso degli anni
le nostre sperimentazioni continuavano all’insegna
del massimo rendimento col minimo sforzo e tempo guadagnato.
Mica scemi ! Quanto il primo era ancora appeso per la “stricatina”
con arance e sale, il sottoscritto e Mico entravamo nella
zzimba, solo con la cordina e lo scannaturi
d’acciaio. Due minuti, massimo cinque, non si sentiva
alcunché. Per il secondo si poteva dire che era più “fortunato”,
almeno moriva in casa sua !
La bbuccula
resistette un paio d’anni, poi fu dismesssa per
collassamento per cui le due corde, quella del piede e
quella del muso furono passate attraverso un buco nel muro
vicino la porta e tenute stiranti dall’interno. La forza di
figli e nipoti contro quella del maiale che tirava
dall’altra parte. Una bella lotta. Avrebbe vinto senz’altro
il maiale, se non fosse che, perdendo il suo sangue perdeva
anche la sua forza. Successivamente, negli anni, evitammo
anche questo spreco di energie. Si portava il maiale in un
angolo del cortile, usando solo la cordina per il muso e il
coltello scannaturi, un solo colpo, e poi lo
lasciavamo libero di morire in tutta tranquillità.
Questa la
cronaca della mia esperienza di come si fa il maiale,
dall’entrata nella zzimba fino alla messa a letto delle
minzine. Penso che tutti abbiamo avuto questa esperienza,
raccontiamola ai nostri figli, ai nostri nipoti, facciamo
vedere loro le numerose foto a corredo della tradizione del
maiale, così quando mangiano “na ffetta i capicodhu o nu
ruppu i suppizzata o capitannu nda na frittuliata”, tra
amici, sentiranno tutto più saporito.
P.S.:
Ricordatevi di dire loro che del maiale non si butta niente,
soltanto l’ “ossa e u pilu”.
Vi saluto.
Francesco P.
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