UNA STORIA FANTASTICA, SENZA PRETESE, MA VEROSIMILE
Cap. 10 Dall’unificazione alla II^ Guerra MondialeMutati gli ordinamenti precedenti, eseguito il primo censimento italiano nel 1861, decretate imposte e tasse, sopraggiunte le generali leggi statali ispirate a criteri di "modernizzazione", a Fossato purtroppo non si verificava alcun mutamento di incisivo stimolo di miglioramento sul piano locale, anzi si confermava una salda continuità col passato, senza segni di rottura, né di rinnovamento, in una realtà rurale largamente arretrata, ancora per lungo tempo, in completo analfabetismo. Il vecchio tessuto abitativo dell’intero paese "resisteva" immodificato: senza acqua, senza servizi igienici, con stalle, porcili e gallinai annessi; senza fognature, con rigagnoli tra le 'nsilicate e persistenti miasmi malsani; senza illuminazione; senza luoghi di svago; senza scuole ben organizzate come punto di riferimento culturale; senza controlli sanitari efficienti; senza strade di collegamento con l’esterno, salvo le carreggiate verso mare e le mulattiere per sentieri campestri insicure e pericolose. Ciononostante, in autonomia e nel segno di un più generale rinnovamento, i buoni agricoltori fossatesi, instancabili lavoratori e ottimi "padri di famiglia", per i cambiamenti del 1806 divenuti liberi e franchi "padroni", per riscatto oppure per separato acquisto di terreni in alienazione, non interponevano indugio nell’orientare le loro "fatiche" verso la sistemazione dei suoli e la realizzazione di nuovi impianti arborei con preferenza generalizzata per l’olivo. Ulteriori arrotondamenti, forieri di frammentazione, venivano successivamente resi possibili da residue vendite di cespiti baronali, "torre" compresa; mentre i terreni di derivazione ecclesiastica, in lotti di grossa ampiezza, venivano legalmente devoluti od alienati ad aventi diritto per prelazione od altro reale beneficio nel tempo maturato per deputata conduzione e coltivazione. Con ulteriori trasferimenti di "frustoli" ecclesiastici e con la divisione di terreni demaniali, si avviava l’inarrestabile processo di polverizzazione della proprietà sottostante ai centri abitati. Da allora in poi, nonostante fosse storicamente considerato come zona a basso sviluppo, Fossato con la sua popolazione, oltre a rendersi partecipe testimone di più generali eventi nazionali, diveniva soprattutto protagonista in assoluto del benessere civile, economico e sociale dell’intero circondario eminentemente agricolo. In breve, prendeva atto della designazione dapprima come Comune di Fossato di Calabria Ulteriore Prima e poi come delegazione; partecipava al censimento del 1861; accoglieva le leggi sul macinato, sull’istruzione, sull’assistenza pubblica che indirettamente sanciva la marginalizzazione dei terreni di alta e media collina e di montagna, nonché della zootecnia. Sul piano locale invece seguiva con attenzione l’evoluzione del processo di trasformazione delle rinnovate strutture agrarie e partecipava attivamente all’arginatura di avulsi terreni demaniali di letto "fiumara" con riconversione delle "naside" in orti resi irrigui con turni settimanali a pagamento; affrontava con gravi perdite la generale crisi degli allevamenti di filugello per pebrina, con conseguente chiusura della fiorente filanda sino ad allora alimentata dall’industria familiare di bachi da seta. Eseguite a livello nazionale, sia l’inchiesta generale sullo stato dell’agricoltura, sia la rilevazione statistica su base comunale, comprendente anche le strutture agrarie, entrambe volte a stabilire quali trasformazioni economiche e sociali erano intervenute nel postunitario, Fossato veniva classificato come "territorio non suscettibile di sviluppo", per immotivate resistenze alle innovazioni e per poca propensione ai cambiamenti. Pur chiudendo "ufficialmente" in negativo questa prima fase di rodaggio dall’unificazione, Fossato sfumava lentamente verso la contemporaneità, dopo un lungo periodo di transizione pigramente vissuto tra epoca borbonica e integrale prima esperienza di vita italiana. Posto, dunque, dall’alto, in posizione di retroguardia, un "muto" Fossato diveniva, suo malgrado, "forzato" spettatore, immobile e disorientato, per alcuni lustri storici di vitale importanza, ineluttabilmente vissuti all’ombra di generali progetti politici ed economici, nei quali, però, in nessun modo e in nessun caso, veniva coinvolto o specificamente interessato. In definitiva, veniva sistematicamente escluso dai programmi di intervento pubblico e dalla connessa pluralità di azioni e interazioni integrative, reiteratamente poste invece in campo per altri comprensori provinciali. Nell’attesa di tempi migliori, Fossato, ormai lontano dalle carestie e dagli incubi del vaiolo, della dissenteria e della malaria, dal suo dignitoso "nuovo" isolamento non tralasciava di seguire con costante attenzione l’evolversi dei più importanti avvenimenti nazionali e, nel contempo, di costruirsi una "separata storia", interessante e significativa, basata essenzialmente sulla sommatoria degli accadimenti di notevole rilievo emersi all’interno della comunità locale, esclusivamente. Con l’unificazione dell’Italia del 1860, purtroppo Fossato non ebbe uno sviluppo, come la popolazione si aspettava. L’isolamento dal resto del territorio, la mancanza di vie di comunicazioni, necessarie allo sviluppo del commercio e delle altre attività con le popolazioni limitrofe rimase fermo. Era impensabile il trasporto a dorso di asini e muli di tutte le mercanzie locali. Ormai le notizie di altri paesi, nazioni, dove la rivoluzione industriale assumeva proporzioni gigantesche, e dove le opportunità di lavoro facile e lauti guadagni era alla portata di tutti, giungevano al paese. Incominciò così il fenomeno dell’emigrazione. Dapprima uno sparuto numero di persone direzione le Americhe, territorio vastissimo e affamato di manodopera generica, non avendo i nostri compaesani alcuna specializzazione. Trovata una buona sistemazione i primi “avventurieri”, lo fecero sapere ai loro parenti rimasti al paese. Alla fine del 1800 interi nuclei familiari emigrarono e da allora cominciò lo spopolamento del paese che dopo appena un secolo, vide ridotta ad appena un terzo la sua popolazione residente. Fu abbandonata la coltivazione del baco da seta, e l’agricoltura fu indirizzata sempre di più verso la più redditizia coltura dell’ulivo, anche perché la manodopera richiesta era minore.All’epoca, la scolarizzazione era riservata solo a poche famiglie, e l’analfabetismo raggiungeva il 90% della popolazione. Con le rimesse dei primi emigrati a poco a poco anche le famiglie di grado sociale più basso poterono mandare a scuola i propri figli, sebbene allora a Fossato la scuola dell’obbligo non era ancora stata istituita. Si poteva frequentare fino alla classe terza e poi bisognava sostenere gli esami per il brevetto in quel di Melito Porto Salvo. Una buona opportunità di guadagno era rappresentata dall’esercito, anche se la leva non era ancora un istituto obbligatorio, diversi giovani di allora si arruolarono e, dopo alcuni anni rientrarono al loro paese di origine con qualche esperienza in più e magari qualche grado od onorificenza. In quegli anni, non si sa per quale motivo, il comune che in origine portava il nome di Fossato di Calabria, cambiato poi con l’unità d’Italia in Fossato Calabro, assunse la denominazione definitiva di Montebello Jonico,
Le prime avventurose e sciagurate spedizioni in Africa del Governo Italiano coinvolsero parecchi fossatesi, che, sempre in cerca di fortuna, immolarono spesso e volentieri la propria vita alla ricerca di un futuro migliore e più agiato. Per riacquistare la fiducia delle popolazioni meridionali, il governo nei progetti di sviluppo del sud incominciò a costruire strade e ferrovie, si parlava già di un ponte che avrebbe unito la Sicilia al continente. Gli emigrati, specie negli Stati Uniti, che trovarono lavoro nelle grandi costruzioni, in particolare quella del famoso ponte di Broocklin, quando si sparse la voce che sullo stretto di Messina sarebbe stato costruito il ponte, rientrarono nella speranza di trovare lavoro a due passi dalla propria casa, ma rimasero delusi, della costruzione del ponte, se ne parla ancora oggi ….. Ma un’altra grande catastrofe stava per accadere: il terremoto del 1908. Sono ben noti i danni e le vittime che esso provocò anche nel territorio fossatese.
Proprio ad uno di questi carabinieri, finita la lotta al banditismo, fu concessa per meriti l’apertura della prima rivendita di sali e tabacchi e del chinino di stato. Quel carabiniere, di origini pugliesi, don Pasquale Belviso, sposatosi con giovane paesana, di cui resta ancora l’immagine nella nostra memoria, anche se ormai un ricordo sbiadito nel tempo. Il Barone Piromallo abbandonò il paese e nel 1913 vendette le sue proprietà. A lui subentrò la famiglia Guarna come proprietaria di grossi latifondi, ed altre famiglie (Sgro – Gullì) raggiunsero il massimo della propria grandezza. Ben presto la via dell’emigrazione riprese sempre sulla direttrice delle Americhe, non essendoci altra alternativa. Fossato restava sempre isolata, la strada tanto sperata era solo un effimero progetto. L’unica via di comunicazione verso la costa, in alternativa a quella attraverso la montagna per raggiungere Reggio, era lungo il torrente S. Elia. Esisteva qualche carro trainato da buoi, ma quanto tempo ci voleva per raggiungere il mare, un percorso di circa dieci chilometri si copriva in circa tre ore, ma solo nella stagione estiva. Durante l’inverno le piene delle fiumare erano così frequenti che non consentivano il viaggio. Allo scoppio della grande guerra a Fossato la popolazione raggiungeva quasi 2.000 abitanti. La leva, divenuta obbligatoria costrinse tantissimi giovani e meno giovani a raggiungere il fronte per liberare e difendere una terra a loro sconosciuta. Numerosi sono stati gli atti di eroismo da parte dei nostri contadini soldati, qualcuno ci lasciò anche la vita, chi fu ferito e mutilato, chi sopravvisse.
Ma questa eroica ed amara esperienza non cambiò le cose nel paese. Considerato che le piantagioni degli uliveti aveva raggiunto il massimo dell’espansione, sorsero qui e la nelle campagne degli stabilimenti pe la spremitura delle olive, i trappiti. Se ne costruirono almeno una quindicina, sempre nelle vicinanze delle sorgive di acqua perché era necessaria alla lavorazione. Le macine erano due o tre ruote di granito fatte ruotare con forza animale (buoi, asini ed anche muli) messi a disposizione a turno dai proprietari su un ripiano circolare dai bordi alti circa 40 cm. dove si scaricavano le olive. Le grosse ruote in pietra con un movimento circolare schiacciavano le olive formando un pastaccio. Questo poi veniva insaccato in contenitori (le sporte) di vimini e in seguito di cordame grezzo con un buco centrale. Poi venivano impilati su degli appositi supporti metallici e pressati facendo girare un rudimentale torchio a forza di braccia. Un palo lungo dai 6 agli 8 metri consentiva a cinque/sei uomini robusti di far girare il marchingegno e pressare il contenuto. Le presse, prima ancora che fossero costruite in ferro, erano costruite con legno massiccio di quercia. I montanti e l’architrave, ancora se ne può ammirare qualcuno, erano dello spessore di circa 50 cm, nell’architrave veniva incanalata la vite senza fine, anch’essa in legno, che consentiva di sollevare le sporte e comprimerle contro l’architrave, spremento così il pastaccio. Man mano che la spremitura raggiungeva la pressione giusta da un canaletto metalicco il liquido marrone scuro, olio e morchia, (a murga) si depositava in grossi tini di legno. Qui per decantazione, l’olio, essendo più leggero dell’acqua, restava nella parte superiore del tino mentre l’acqua andava verso il fondo. Dopo qualche oretta, completata la decantazione, u capu trappitaru cominciava a travasare l’olio nei bumbuluni con dei contenitori metallici di varia misura, prima il micagnu, poi il quartucciu ed infine a pidha, man mano che si raggiungeva il limite tra olio e murga. I bumbuluni di lamiera contenevano circa 48 litri di olio, cioè 4 cafizza, u cafizzu circa 16 litri. I bumbuluni messi dentro delle gerle alte (i cofini) intrecciate con rami di castagno giovane e canne, venivano poi a dorso di asino o mulu trasportate a casa del proprietario delle olive molite. La resa era di circa due o due cafizza e menzu per ogni macina, la macina era la quantità di olive occorenti per formare due quintali, ovvero quattro tomoli (tumina). I trappiti, come ancora oggi si fa, venivano pagati in natura. A seconda della stagione e della resa, ad inizio campagna olivicola, i proprietari dei trappiti stabilivano quanto olio (a decima) il produttore doveva lasciare al trappitu per ogni macina di olive. Con la decima venivano pagati i trappitari (gli operai) ed i proprietari del trappitu. Lungo le fiumare erano continuo lo scorrere di ruscelli di murga che dai trappiti veniva scapulata lungo i torrenti. Allora non si inquinava!!! Con l’avvento del fascismo, un po’ dell’orgoglio patrio sembrò rinascere, si tornò ancora una volta all’agricoltura, si riedificarono alcune vecchie filande, ma lo sviluppo per tutti non decollò affatto, anzi consentì ancora una volta alle famiglie dei soliti benestanti di riaffermare il loro potere, complice la loro amicizia con le gerarchie fasciste. Furono gli anni dell’emigrazione clandestina, frotte di antifascisti o pseudo tali, lasciarono il paese e con l’aiuto di guide paesane, traghettatori di clandestini in paesi stranieri, raggiunsero la Francia e da lì la Svizzera e la Germania.
Si continuava a parlare della strada che doveva collegare il paese alla costa. In effetti la strada da S. Elia era stata incominciata, ma a gran rilento, con continue varianti, non faceva che poche centinaia di metri l’anno. Anziché progettare il tragitto lungo le sponde del S. Elia, si preferì un tracciato più tortuoso e lungo, sicuramente per avvantaggiare e valorizzare le proprietà di poche famiglie. Tant’è che dopo quasi venti anni raggiunse l’abitato di Montebello e li si fermò ancora per parecchi anni. Negli anni ’30 ebbe una certa importanza la produzione frutticola del paese, pere in special modo che caricate sui carri ferroviari allo scalo di Saline venivano spedite anche all’estero. Poc’anzi ho detto scalo ferroviario e non stazione per il semplice motivo che ancora in quegli anni Saline era un piccolo villaggio di case costruite lungo la statale 106, la presenza del pantano rendeva tutto il circondario insalubre e quindi non adatto all’insediamento di persone ed animali. Tra alterne vicende Fossato ebbe comunque uno sviluppo demografico significante. Occorse solo qualche decennio e la popolazione raggiunse le 2.500 unità, che la poneva al primo posto come densità tra le tre frazioni che costituivano il comune. Le campagne con le loro produzioni agricole consentivano una vita dignitosa, c’era di tutto, mancavano solo i soldi, prerogativa solo di poche famiglie.
(Continua)
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