UNA STORIA FANTASTICA, SENZA PRETESE, MA VEROSIMILE

 

Cap. 6

Il Feudo di Montebello

Nel 1424 il territorio del Feudo Montebellese, donato ad un certo Sanches dalla corte Aragonese, cadde sotto l’attacco degli uomini di Sant’Aniceto. Il castello fu preso alle spalle attraverso le montagne con l’aiuto dei fossatesi. In seguito, dopo qualche anno di sottomissione a Sant’Aniceto, divenuto di proprietà dei Ruffo di Calabria, il feudo fu consegnato agli Abenavoli del Franco, discendenti di quel Ludovico che nel 1513 partecipò alla famosa disfida di Barletta. Con alterna fortuna mantennero il potere fino alla metà del 1600. Poi, gli Abenavoli furono costretti ad abbandonare Montebello perché malvisti dai loro sudditi. Il Ducato allora fu comprato dalla Nobile Famiglia reggina dei Francoperta al prezzo 15.500 ducati. Dopo una ventina di anni ridiventarono proprietari gli Abenavoli fino alla efferrata strage della notte di Pasqua del 1686, quando la famiglia Alberti, di origine siciliana, fu sterminata causa il mancato matrimonio tra Bernardino Abenavoli e Antonietta Alberti.

Nel Seicento, tuttavia, l’amministrazione spagnola favorì l’introduzione su tutto il territorio della provincia la coltivazione del bergamotto, destinata a divenire, insieme all'allevamento del baco da seta, la principale attività produttiva nei secoli a venire.

Storia e fantasia popolare si intrecciano nel racconto del tragico episodio di quella lontana notte di Pasqua del 1686.

Dunque i Baroni Abenavoli, per i meriti acquisiti da Ludovico Abenavoli nella disfida di Barletta, ebbero in feudo un'estesa zona di territorio, comprendente anche Pentidattilo e Montebello. In seguito però persero gran parte di quelle proprietà, restando signori solo di Montebello, luogo della loro residenza. Pentidattilo passò nel 1589 ai Marchesi Alberti, originari di Messina. I rapporti tra le due casate si fecero da subito ostili, inasprendosi via via a causa di conflitti d'interesse riguardanti in particolare motivi territoriali e di confine. Si cercò tuttavia di arrivare ad un compromesso, soprattutto grazie alla mediazione del Viceré di Napoli, Don Petrillo Cortez, che organizzò un incontro, a Pentidattilo, che avrebbe dovuto affievolire l'astio e l'ostilità regnante tra le due case fino a quel momento. In quell'occasione, però Bernardino Abenavoli, figlio del Barone di Montebello, ebbe modo di conoscere Antonietta, figlia del Marchese Alberti, innamorandosene a prima vista.

Sembra che anche Antonietta non fosse rimasta indifferente al fascino di Bernardino, col quale, grazie all'aiuto di terzi, avrebbe mantenuto una corrispondenza segreta.

Nel frattempo muore Domenico Alberti e gli succede il figlio Lorenzo. Anche Lorenzo, come in precedenza suo padre, negava a Bernardino la mano di Antonietta. Giorno dopo giorno il rancore e l'odio di Bernardino aumentavano. Tra l'altro, da un eventuale matrimonio con Antonietta, egli si sarebbe notevolmente avvantaggiato, acquisendo consistenti proprietà terriere. Intanto arrivò il tempo di un altro matrimonio, quello tra Lorenzo Alberti e Caterina Cortez, figlia del Viceré Pietro. Uno straordinario corteo portò la sposa e il suo seguito da Catona (luogo dello sbarco delle galee provenienti da Napoli) a Pentidattilo, passando per Reggio. La cerimonia, sfarzosa, favori l'incontro tra Antonietta e il galante Don Petrillo Cortez, fratello della sposa. Egli si invaghì subito di Antonietta che, apprezzando gli eleganti modi di fare del giovane, accettò la corte. I due iniziarono quindi a frequentarsi. Bernardino capì che i suoi progetti erano ormai falliti.
Offeso e ferito nell'onore meditò la vendetta: durante la notte di Pasqua, con al seguito un buon numero di uomini armati fino ai denti, iniziò il cammino da Montebello. I movimenti avvenivano in assoluto silenzio, affinché il vento, che forte attraversava le vallate, non aiutasse i guardiani del castello di Pentidattilo a percepire rumori e suoni sospetti. Arrivati sul posto, grazie all'aiuto di un tale Scrufari, un servo traditore. Bernardino e i suoi penetrarono nel castello da un ingresso secondario. L'epilogo è tragico: lungo i corridoi del castello "dalle trecento porte" cominciò la carneficina che non risparmiò neanche i bambini. Bernardino entrò personalmente nella stanza del Marchese Lorenzo, ferendolo ripetutamente e infine colpendolo mortalmente mentre dormiva accanto alla moglie Caterina, sopravvissuta alla strage. Tra i superstiti, oltre Caterina, fuggita poi a Napoli, ci fu, naturalmente, Antonietta. Quest'ultima fu condotta a forza a Montebello dove, contro il suo volere, andò in sposa a Bernardino. Don Petrillo Cortez, rapito e portato anch'egli a Montebello, fu a lungo tenuto prigioniero.

In seguito, però, Bernardino, braccato dalla giustizia, fu costretto alla fuga: mentre Antonietta riparò, probabilmente a Reggio, egli andò a combattere sotto altra bandiera, forse a Vienna, arruolandosi nell'esercito imperiale. Combattendo contro i Turchi al fianco dei Veneziani, morì colpito da una palla di cannone.

Molte leggende del luogo si rifanno a quella strage. C'è per esempio chi racconta che il Marchese, colpito a morte dal rivale, poggiando la mano alla parete, lasciò l'impronta delle cinque dita insanguinate, simile, per forma e colore, alla rupe di Pentidattilo nelle albe limpide, quando le sabbiose pareti, colpite dal sole nascente, acquistano gradazioni rossastre.

Dopo il definitivo abbandono degli Abenavoli il feudo fu dato al Barone Giuseppe Barone che lo mantenne fino al 1757. In quell’anno acquistato dal Baroni Piromallo della famiglia Scapece/Piscicelli, principi di Capracotta.

Nel corso del Settecento, dopo essere passata sotto il governo dei Borbone, Reggio attraversò un periodo abbastanza prospero e in alcuni frangenti superò i ventimila abitanti. Il miglioramento delle condizioni economiche si spiega con l’affermarsi di un tipo particolare di agricoltura, incentrata sulle colture specializzate tipiche del “giardino mediterraneo”: agrumi, gelso, vite, lino, ortaggi. Lo sviluppo agricolo, favorito dall’assenza del latifondo e dalla diffusione della colonìa e della piccola proprietà contadina, si collegò, nel settore delle esportazioni, al redditizio allevamento dei filugelli (i funicedhi) e alla produzione della seta grezza nelle filande.

A questo punto è obbligo fare un berve accenno all’allevamento del baco da seta. (da www.webcalabria.it).

Si narra in un libro di Confucio che un'imperatrice cinese insegnò ad allevare il baco da seta e a tesserne la bava, ben 2600 anni prima di Cristo e che il popolo riconoscente la divinizzò e adorò come "Dea della seta". Custodita gelosamente nei recessi della corte imperiale, il silenzio  avvolse per lunghi secoli la scoperta, e solo nel quarto sec. d.C. il Giappone e l'India ne vennero a conoscenza, si dice grazie all'astuzia di una principessa cinese andata in sposa al re del Turkestan che, per non rinunciare ai suoi abiti di seta, nascose nei capelli alcune uova del prezioso animale.

Quando, nel primo sec. d.C., sotto l'imperatore Augusto, Roma venne a contatto con il fasto dell'oriente, e oro, gioielli, profumi, entrarono nelle case dei nobili, la seta divenne il tessuto preferito per l'abbigliamento femminile. Nei mercati dell'Asia Minore, i Romani appresero che la seta proveniva dalla Cina (chiamarono infatti i cinesi "Seres", dal greco "seres"=seta), ma ignorarono di qual materia essa fosse composta: la credettero un prodotto vegetale, ricavato da piante non esistenti in Europa. Fu solo più tardi, nel sesto secolo, dopo Cristo, che mediante uno stratagemma, l'allevamento del baco poté essere introdotto anche nei paesi mediterranei.

Quando ormai l'impero Romano d'occidente si spegneva sotto l'ondata delle invasioni barbariche, e a conservare la civiltà latina rimaneva l'impero Romano d'Oriente, si racconta che due monaci, inviati dall'imperatore Giustiniano a diffondere la parola di Cristo nelle terre asiatiche, riportarono alla capitale Bisanzio (l'odierna Costantinopoli), nascosti nelle canne dei loro bastoni di viandanti, alcuni bozzoli del baco da seta. Fu così che, in Grecia, in Persia e nelle città italiane di diretta influenza bizantina, furono organizzati i primi allevamenti.

Gli Arabi, nel IX sec. dettero nuovo incremento alla sericultura in Persia, in Sicilia, in Calabria e, soprattutto, in Spagna. La Cina ne rimase tuttavia la maggiore produttrice: l'itinerario percorso dai mercanti occidentali che si recavano in Cina fu chiamato per lungo tempo "la via della seta". Si può dire che la diffusione della sericultura negli altri Paesi Europei  è dovuta prevalentemente agli italiani: genovesi furono coloro che per primi trasferirono il commercio della seta ad Avignone, italiani furono i primi allevatori del baco in Inghilterra ed in Svizzera. Come non supporlo, del resto, se, nella Firenze dantesca, ricca d'industrie e di commerci con i paesi d'oltralpe, esisteva, a tutelare i diritti dei setaioli, la "Corporazione della seta"? Il ‘500, nell'Europa tutta, fu il suo secolo d'oro: provano ciò i lucidi tessuti dai mille riflessi, i ricchi damaschi dai fantastici disegni ed i pesanti velluti dai caldi colori, dipinti con frequenza dai pittori dell'epoca.

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