"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

 





 

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PULCINO, LA STAFFETTA PARTIGIANA*)             

Il pomeriggio è inoltrato. Dal versante della montagna le prime ombre della sera lambiscono la baracca in mezzo alla vigna. Seduto su di un masso, Terra tenta con scarsi risultati di riparare gli scarponi col filo di ferro. I compagni lo hanno chiamato Terra per la sua origine meridionale. Molti partigiani lo sono. Anche i comandanti Barbato e Petralia. Garibaldini senza esitazioni.

 Lo hanno chiamato Terra da pipe, scherzosamente, e quindi semplicemente Terra. Ha gli occhi scuri, un sottile paio di baffi, i capelli corvini riccioluti e pettinati all’indietro. Una fossa al mento. Parla poco, ma ride di un sorriso franco. Ha una tuta da meccanico, stretta da una cinghia di cuoio.

Da basso si sente un fischio prolungato. Dopo qualche tempo spunta da viottolo il vecchio Pietro. Tira il fiato appoggiato al fucile come a un bastone. Ha la barba brizzolata incolta e sudata. E’ il veterano del gruppo, di fiducia del comandante. Si accoccola vicino a Terra con un sospiro lamentoso che vuole essere un saluto. Tira fuori dalla tasca il tabacco e si arrotola con cura la sigaretta. La offre al compagno col gesto.

“E’ inglese.”, dice.

            Terra rifiuta con un cenno del capo.

            “Me ne ha fatto parte un giellino su al comando. Loro hanno avuto un lancio.

            Terra finisce di calzare gli scarponi aggiustati alla meglio.

            “Bisogna che tu vada al comando.”, continua Pietro. “Per stasera. C’è del movimento in aria.”

            Il giovane annuisce.

            “Siamo quasi in inverno.” dice il vecchio. “Gli Alleati sono impantanati da qualche parte in Centro Italia. Per quest’anno non se ne fa nulla.  E sarà dura.”.

            Terra ascolta guardando le scarpe di Pietro. Sono malmesse più delle sue. I pantaloni di spesso fustagno sono rattoppati alle ginocchia. La giacca di pelle perde pezzi. Pietro fuma assaporando il fumo azzurrino della sigaretta.

            “So quello che pensi, Terra. Credo che molti devono tornare a casa, quelli delle nostre parti che possono. Se ne parlava al comando. Forse anch’io porterò in cascina questa vecchia carcassa. La gente dà quello che può. Di più non puoi pretendere. Anche loro sono all’osso…”

            Dalla baracca si vedono  le case sparse nella valle. Ogni tanto si sente l’abbaiare dei cani nei cortili. Silenzio tra le dolorose ombre della sera.

            “Già.”, dice Terra.

            Pietro continua il suo discorso. Quasi uno sfogo. L’autunno inoltrato ha arrossato le foglie; i primi freddi si fanno sentire e costringono nei pagliericci molti di loro. Gente salita in montagna  senza equipaggiamento. Sbandati, giovani coscritti, quasi tutti senz’armi. Si è raccattato qualcosa nelle caserme abbandonate e lungo i sentieri della IV Armata in ritirata dalla Francia. Ma è poca cosa. La disciplina si sta allentando. Qualche ruberia nelle cascine: roba di poco conto che però bisogna punire con severità. Nei reparti l’inverno lo passeranno in pochi. Tutti quelli che potranno scenderanno in pianura.

            Pietro parla e una piega amara gli compare ai lati della bocca. Le rughe si accentuano in solchi profondi. Terra ascolta assorto disegnando per terra con uno stecco. Sta imbrunendo.

            “Dio…”, bestemmia Pietro.

            Si alza ed entra nella baracca lasciando il vecchio fucile appoggiato al muro. Terra in piedi si stiracchia. Se è per la sera bisogna muoversi. Si accomoda la tuta e stringe la cinghia di un foro. Prende il mitragliatore per la canna e aspetta l’altro.

            “Si va?”

            I due si incamminano, Terra avanti e il vecchio dietro. In silenzio.

            Quando arrivano al gruppetto di baite del comando è appena buio. Gli uomini discutono a gruppi. Sono giovani. La figura di qualche anziano – basta avere trent’anni per essere anziani – si nota per la compostezza e la serietà dei gesti.

            “Ah!”, dice Pietro. “Il comandante ha già parlato.”

            “Di cosa?”, chiede Terra.

            “Di quello che ti accennavo prima. Le cose si mettono male. E’ necessario che chi può vada a casa. Rimangono solo quelli che, come te, Terra da pipe, e altri non possono. Forse anch’io…”

            Terra guarda i compagni. Solo pochi sono armati. Vecchi fucili di recupero, qualche pistola. Rari i mitra e poche le cartucce. Penosa la situazione delle munizioni e delle vettovaglie.

            Arriva di corsa Pulcino, un ragazzo di sedici anni. E’ arrivato in montagna tra i primi. Salta sulle spalle di Terra che ride per la sorpresa. Sono legati. E’ l’unico con cui Terra scherza volentieri.

            “Stasera si scende a suonargliele”, dice ridendo pulcino. “Ci vengo anch’io.”

            Il ragazzo fa “Tatatatà!”con la bocca imbracciando un mitra immaginario.       

          Terra non riesce a frenare una risata. Fa per accarezzare la testa al ragazzo che si scosta indispettito.

            “Ohé, napuli, mica sono un cit. Le mani a posto. Sono un partigia!”

            “Feroce saladino,” interviene Pietro. “Va ad aiutare in cucina.”

            Sulla porta di una baita un allampanato e secco partigiano con baffi spioventi fa cenno verso di loro. Vuole il ragazzo.

            “Ci vediamo dopo.”, saluta Pulcino e si allontana a malincuore.

            “Dice sul serio?”, chiede Terra.

            “Sì.”, risponde Pietro. “Vi farà da staffetta. Domani poi lo manderemo al sicuro da amici.”

 

            Il comandante  Neri è un uomo sulla trentina, baffi biondi macchiati di fumo, borse sotto gli occhi. Porta una camicia militare con tre stelle cucite sul petto. Sta seduto dietro un tavolo intento a leggere delle carte. Entrano Pietro e Terra. Il comandante li accoglie con un sorriso. Pietro posa il fucile in un angolo.

            “Missione compiuta, capo.”, dice al comandante. “Te l’ho portato.”

            “Ciao, Terra. Eccoti qua.”

            “Buona sera, Neri. Mi volevi?”

            Dalle parole si nota lo sforzo per la timidezza e uno strascicato accento del Sud.

            “Dimmi, Terra, tu non eri in Aviazione?”, chiede Neri.

            “Sì.”, risponde il partigiano. “L’otto settembre stavo finendo un corso di motorista a Torino. Ma ero di stanza ad Alessandria.”

            “Scuola?”

            “Ho le superiori.”

            “Ho capito. Ti ho fatto chiamare per un’azione in pianura. Sai andare in bici?”

            “Cado poco.”

            “Bene. Prendi da fumare.”, dice il comandante. Gli allunga le sigarette.

            Terra accetta e siede con il mitra sulle gambe. Il comandante esce. Da fuori si sentono le voci dei partigiani. La stanza è disadorna. Sul tavolo del comandante, la macchina da scrivere e fogli sparsi. Terra fuma e dà uno sguardo distratto alla cartina geografica appesa al muro. Dopo qualche minuto rientra il comandante seguito da due uomini. Uno è molto giovane, un ciuffo di capelli biondicci sulla fronte. Indossa una giacca mimetica  e pantaloni civili rattoppati. E’ Tom. Si conoscono da tempo, lui e Terra, e sono quasi amici. Tom si ravvia il ciuffo con le dita della mano. Si avvicina a Terra e gli dà una pacca sulla spalla. Terra abbozza un sorriso.

            “Ciau, chiacchierone. Ci sei anche tu?”

            Il comandante si siede sul tavolo con le gambe penzoloni. Prende delle carte e comincia a parlare.

            “Vi conoscete già. Bene… L’azione di stasera è stata concordata con i comandi di tutte le altre formazioni che operano in zona. Giù a S. al cinema Nazionale deve parlare il generale L. E’ un papavero  repubblichino. Un pezzo grosso, deve cadere facendo molto rumore. Ma è naturale che non voglio – dico: non voglio – gesti di eroismo stupido e gratuito. Niente smargiassate. Ve la sentite?

            Gli uomini si guardano. Il colpo è di quelli grossi.

            “Si tratta di agire di sorpresa e con la massima decisione. Se la cosa si presenta fattibile. Altrimenti dietro front e gambe… In questo momento abbiamo bisogno di un’azione dimostrativa. Prima dell’inverno.

            I partigiani si guardano di nuovo.

            “Si può provare.”, dice Tom.

            L’altro partigiano annuisce con la testa. Terra scrolla le spalle.

            “Verrà con voi Pulcino e vi farà da staffetta lungo la strada. Poi guarderà le biciclette. Sarà qui tra poco. Il ragazzo non deve assolutamente prendere parte all’azione. Ora i dettagli. Nella casa all’imbocco della provinciale…”

            Fuori nello spiazzo si sente a intermittenza la voce calma del comandante. Gli uomini del distaccamento si stanno preparando per la notte. Accosto a un muro c’è il fuoco acceso. Il vecchio Pietro sta accendendo la sigaretta con la brace di uno stecco. Pulcino gli arriva alle spalle silenzioso. Gli sferra un calcio  e scappa ridendo. Il vecchio gli grida:

            “Figlio di quella gran baldracca di tua madre!”

            E fa finta di rincorrerlo.

            Pulcino entra a valanga nella stanza del comandante.

            “Sei entrato, eh? Non era il caso di farlo con tutto quel garbo!”, ironico Neri.

            Gli uomini ridono e Terra si illumina. Il ragazzo gli siede accanto e comincia ad armeggiare col mitra.  

            “Caccia le mani dal caliatore.”, lo rimprovera Terra.

            “Lascia stare quell’attrezzo. Che se parte fa danno.”, calca la mano il comandante con voce severa. “Ascolta bene anche tu.”

            “Comandante, voglio anch’io un’arma.”

            “L’avrai, l’avrai.”, risponde Neri con un’asprezza insolita. “Ma la usi solo in caso di necessità estrema e solo per dare l’allarme. Solo per dare l’allarme. Capito?” E tira fuori dal cassetto del tavolo una pistola automatica. La porge al ragazzo e continua:

            “ Ha una sola pallottola, da usare strettamente per quello che ho detto.”

            Gli occhi di Pulcino brillano e le mani fremono per la voglia di afferrare l’arma.  

Nella cascina in pianura, Terra e Pulcino sono seduti su una panca. I compagni sono andati a prelevare le biciclette in una casa vicina. Pulcino gioca con la pistola. La guarda da ogni lato. Toglie e rimette il caricatore con l’unica pallottola.

             “E lascia stare quel ferrovecchio!”, lo rimprovera Terra. “Suona un po’ piuttosto il piffero che ti ho fatto.”

            Pulcino di malavoglia infila la pistola alla cintura  e cava dalla tasca  della giacca un piffero di canna.

            “Tu che sei bravo mi dovresti insegnare.”, fa Pulcino indicando lo strumento.

            “Da’ qua.”

Terra allunga la mano e il ragazzo gli porge il flauto. Comincia a suonare.

“Urca se sei bravo! Una volta o l’altra dovresti insegnarmi.”

Terra ha smesso ed è soddisfatto della reazione del ragazzo. Gli ridà il flauto.

“Un giorno o l’altro ti insegno qualcosa.”

Arrivano gli altri due partigiani con un contadino. Tom regge due biciclette. Gli altri una ciascuno. Il contadino offre da bere agli uomini. Accettano e bevono il vino a turno da un solo bicchiere. Terra per ultimo. Un lungo sorso e scrolla le ultime gocce per terra. I partigiani partono in silenzio. Il contadino con bottiglia e bicchiere in mano li guarda andare via.  

Il gruppo preceduto da Pulcino – gli hanno levato momentaneamente la pistola – pedala nella notte e arriva alle prime casa di S. A ridosso di un muro scendono di sella. Tom consegna la pistola a Pulcino.

“Occhi aperti, uomo.”, gli fa sottovoce. “E non giocare con la pistola. O ti faccio il culo come quello della scimmia!”

Pulcino li osserva mentre guardinghi e raso i muri entrano in paese. Nell’aria le note di una canzone fascista. Il ragazzo siede sul paracarro, ma presto si alza. Si sentono dei passi nel buio. Si appiattisce al muro. Passano parlando tre delle brigate nere. Svoltano all’angolo. La strada è poco illuminata. Qualche minuto e un’ombra l’attraversa  nervosamente. Va nella direzione di Pulcino.

“Fermo là.”, intima all’ombra che si ferma di scatto.

Il ragazzo s’avvicina.

“Chi sei?”, chiede all’uomo che deve essere del posto. “Dammi i documenti.”

Il civile, impaurito e molto nervoso, estrae lentamente il portafoglio, attento a non fare gesti falsi. E’ un uomo di mezz’età, con gli occhiali, leggermente flaccido. Trema.

+Il ragazzo intuisce che ha paura e dei fascisti e dei partigiani. Apre la carta d’identità. Ripete nome, cognome e indirizzo muovendo appena le labbra. L’altro asciuga il sudore della fronte con il fazzoletto.

“Appoggiate al muro ci sono le biciclette.”, fa pulcino con voce dura. “Siamo partigiani. Io vado e torno. Tu fa la guardia e attento a te. Ora sappiamo come ti chiami. Se sgarri ti veniamo a prendere.”

Pulcino parte di corsa nel buio mentre l’uomo con le mani al volto resta immobile accanto alle biciclette.  

Tom, Terra e l’altro sono sotto i portici della piazza principale di S.  Avanzano nell’ombra, le armi imbracciate e le orecchie tese a cogliere il minimo rumore. Un camion e una macchina sono fermi davanti al cinema. All’ingresso due militi fumano. I partigiani si infilano nella traversa e aggirano la piazza per entrare da dietro. Spareranno dalle feritoie della saletta di proiezione. Tutto previsto. La stradina è stretta. Si sentono dei passi. I partigiani si acquattano nei vani delle porte. Tom  mastica nervosamente uno stecco. Terra dall’altra parte della strada stringe forte al petto il mitragliatore. Gli occhi scrutano il buio nervosi. L’altro compagno e rimasto dietro, accoccolato all’angolo scuro di una casa.

La musica degli altoparlanti cessa. Una voce metallica comincia a parlare imitando il Crapùn, Mussolini. Intanto i passi si avvicinano. Si sentono delle voci e una risata. Sono tre delle brigate nere che si fermano a pochi passi dai partigiani a parlare. Gli uomini acquattati nell’ombra sentono distintamente i discorsi.

Un passo di corsa si ode in lontananza. I repubblichini tacciono all’improvviso e imbracciano le armi. I passi si avvicinano. I partigiani scorgono l’ombra che corre piegata nella loro direzione. Corre a zig zag seguendo lo scuro delle case. Ormai è a pochi passi dai militi neri.

“Altolà!”

L’ombra si ferma di colpo. Ha un attimo di smarrimento. I fascisti stanno per saltarle addosso. Sono a pochi passi dai partigiani. Nel buio si ode improvvisa una detonazione. Un milite cade nella strada. Terra è il più vicino al gruppo ed esce allo scoperto. Il mitragliatore spara quasi da solo una raffica singhiozzante. Finisce i colpi del caricatore e s’inceppa. A terra rimangono dei corpi immobili e fumanti. Tom si avvicina al mucchio. Raccoglie di fretta le armi. Terra e l’altro sono immobili in mezzo alla strada. L’altoparlante è muto. Urla e richiami sferzano l’aria.

“Presto.”, grida Tom.

I partigiani corrono senza curarsi di stare nell’ombra. Si sentono latrati di cani.  

Il gruppo arriva alle biciclette. Il civile dagli occhiali vedendoli arrivare scappa senza farsi scorgere. I partigiani cercano Pulcino.

“Dov’è il ragazzo.”, chiede Terra a sé e agli altri. “Dov’ è finito?”

“Sarà scappato quando ha sentito gli spari.”, dice Tom che ha già inforcato la bici. “Dai, muoviamoci!” 

I partigiani sono in aperta campagna. Da un pezzo pedalano stancamente. Tom scende di sella. Gli altri lo imitano.

“Non capisco perché il ragazzo è scappato.”, dice Terra.

Tom tace. Il terzo partigiano si è fermato dietro ad accendere la sigaretta.

Tom e Terra camminano appaiati reggendo le biciclette. Si sentono i cani abbaiare. Tom guarda smarrito davanti a sé. Si ferma e si fruga le tasche.

“Terra, ascolta.”, si rivolge al compagno. “Terra, Pulcino non è scappato. Non scapperà più.” Bestemmia acre nel buio. E gli porge il piffero del ragazzo raccattato per terra in mezzo ai morti.[1]   

          


 

[1] Racconto-soggetto cinematografico liberamente ispirato a una storia narrata da ‘Ntoni u Mericano e realmente accaduta durante la guerra.  

La vicenda della morte del giovane partigiano Eugenio Buscatti ,“Pulcino”, è oggetto della testimonianza pubblicata il 24 gennaio 1946 nella rubrica «I lettori ci scrivono» de «Il Saviglianese», periodico della 103° Brigata d'Assalto «G. Nannetti»:

 «Al nostro Comando [...] era pervenuta la notizia che in una villetta vicino alla stazione di Savigliano, erano nascoste delle armi. Fu inviata una squadra d'azione che doveva operare alle due nella notte del 13 in collaborazione con un distaccamento comandato da Ninfa, ma quest'ultimo mancò all'appello. Dopo aver atteso sino alle 4, l'allora capo squadra Alga ne assunse il comando ed iniziarono la perquisizione (premetto che la zona era tranquilla perché malgrado il coprifuoco i giovani passarono dinnanzi alla stazione e non furono molestati da alcuno). Alle 6,30 circa uscirono dopo non aver trovato alcunché perché in detta villetta abitava un vecchio compagno di lotta. Mentre i ragazzi si avviavano verso la via che costeggia lo stabilimento del Gas sul piazzale della stazione sbucarono dei briganti neri i quali lasciarono passare la staffetta "Pulcino" e fermarono Ted e Walter chiedendo loro i documenti. Walter estraeva da sotto la giubba lo sten-pistola e faceva una scarica contro un b. n. che cadeva ucciso mentre la seconda scarica colpiva un altro. Gli altri fascisti anziché reagire fuggirono mentre Alga sparava proteggendo la ritirata dei Garibaldini. Solo uno rimase a terra: Pulcino, colpito da Walter. [...]».


 

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