|
I VECCHI GIOCHI IN DETTAGLIO
 |
"Mazza e pirigghu": gli attrezzi erano due,
di legno, più o meno dritti e privi di nodi (l�evoluzione degli
attrezzi avvenne quando comparvero nelle case le prime scope di saggina,
i cui manici dritti e lisci erano il non plus ultra della maneggevolezza
e della modernità), la cui sottrazione alle nostre mamme determinava
rimproveri per aver rovinato una bella scopa che puliva u sularu o la
terra battuta dei pavimenti delle nostre povere ma linde case. Uno della
lunghezza di circa 20-25 cm. con le estremità appuntite in modo
da avere un innalzamento da terra di circa due centimetri (U pirigghu),
l�atra la mazza della lunghezza di circa 60-70 cm.. Il gioco era individuale
o a squadre, si tracciava una riga a terra, col mazza stessa più
o meno della sua lunghezza, era la casa, si "jittava u toccu"
per chi doveva cominciare il gioco, si appoggiava u pirigghu sulla testa
da una delle due punte e si lasciava cadere davanti a propri piedi, poi
con la mazza si batteva con violenza sulla punta nella direzione opposta
a quella della riga e poi mentre questo rimbalzava si colpiva a volo per
farlo allontanare il più possibile dalla riga, i colpi ammessi
di solito erano due, e c�erano alcuni ragazzi talmente bravi che dopo
il primo o il secondo colpo, mentre ancora u pirigghu era in aria mollavano
la seconda botta al volo per allontanarlo ancora di più (delle
volte si raggiungevano distanze di 50 e molti più metri). La squadra
che era "sutta", una volta che u pirigghu si fermava, raccolto
lo stesso a turno i componenti della squadra, uno alla volta dovevano
lanciarlo verso la mazza posta sulla riga tracciata per terra e se la
colpiva prendeva il gioco, se invece non si riusciva la squadra avversaria
con lo stesso procedimento di battitura lo allontanava il più possibile
dalla riga e dopo il numero di colpi stabilito si misurava la distanza
con la mazza, trenta, quaranta, cento e più mazzate questi rappresentavano
il monte punti accumulati. Tantissime volte il monte era di mille mazzate
e naturalmente il gioco durava ore ed ore. Vinceva la squadra che per
prima raggiungeva il monte delle mille mazzate. Capitava che in Piazza
Municipio, qualche vetro, che dico il vetro delle finestre del Municipio
forse il solo che esisteva nelle imposte delle case dei dintorni, delle
volte andava in frantumi tra un fuggi fuggi generale ed intervento della
forza dell�"Ordine Pubblico", la Guardia Municipale Don Emanuele,
che con cipiglio e serietà faceva finta di annotare sulla scatola
dei fiammiferi il nome del colpevole.
torna su -
torna indietro
"Arco e freccia": Nelle nostre case arrivarono
anche i primi ombrelli parapioggia di tela nera che non volevano proprio
saperne di parare la pioggia, e si che una volta pioveva. L�idea venne
vedendo il telefilm "Penna di Falco" il sabato pomeriggio alla
TV dei ragazzi. Qualcuno di noi di ingegno acuto ebbe l�idea di costruire
arco e freccia con i ferri che sostenevano la tela degli ombrelli. Si
utilizzava quello più lungo per l�arco a cui veniva legato dello
spago alle due estremità, provviste di piccoli buchi per fissare
con due punti di filo la tela allo scheletro dell�ombrello, si utilizzavano
gli stessi per passare dentro il filo e bloccarlo teso abbastanza da fare
arcuare il ferro, quello più corto che serviva a fissare lo scheletro
a quel cilindretto scorrevole sul manico di legno dell�ombrello, era la
freccia, la si appuntiva molandolo sui muri, e si scatenava la caccia
a lucertole e uccelletti di vario genere. Poi il gioco divenne anche pericoloso
le frecce delle volte andavano a conficcarsi su qualche gamba o gluteo
di qualche malcapitato compagno di gioco, e, coscienziosamente si giocava
solo a tiro al bersaglio a punti.
torna su -
torna indietro

"A fionda":
Una forcina di legno, due elastici
neri (fortunato ritrovamento di qualche camera d�aria), un pezzo di tomaia
di cuoio e dei legacci di spago. Si legavano le estremità degli
elastici da una parte alle punte delle forcine e dall�altra al pezzo di
tomaia, a cui erano praticate delle leggere fessure "i cchetti"per
far scorre dentro l�elastico, in modo da formare una scarcella delle dimensioni
di circa sei centimetri per quattro, il posto della munizione prima di
essere scagliata stirando gli elastici facendo leva e forza sulla forcina
e sulla scarcella, le munizioni erano pietruzze più o meno rotonde
della grandezza di circa una nocciola. Le nostre tasche erano talmente
piene e pesanti che "i bunachi" spuntavano sempre al di sotto
dei nostri pantaloni rigorosamente corti anche nel pieno dell�inverno.
La fionda si usava per andare a caccia di lucertole, e di uccelli di piccola
taglia e come per l�arco anche per tiri di precisione a bersagli mobili
o fissi.
torna su -
torna indietro

"U carè": (Il campanaro), gioco esclusivamente
femminile era il divertimento principale delle ragazzine. Si tracciavano
per terra, sempre la terra polverosa e fangosa, con una pietra appuntita
delle caselle così come nell�immagine in intestazione alla pagina,
poi a turno, determinato dall�immancabile "toccu" singolarmente
o a squadre, si lanciava all�indietro una pietra piatta "u �Ndocciu",
delle dimensioni di 4x5 circa, con le spalle rivolte al carè cercando
di farla atterrare in una delle caselle dello stesso che poi si andava
a raccogliere saltellando su una gamba casella per casella ad esclusione
di quella momentaneamente casa du "ndocciu", facendo attenzione
di non toccare le righe o di non appoggiare l�altro piede a terra, se
no si andava "sutta". Completate correttamente le caselle si
ripeteva lo stesso lancio e si conquistava la casella dove si fermava
la pietra lanciata, e, come segno si tracciava una grossa X contrassegno
dell�una ed un O come contrassegno dell�altra squadra. Vinceva la squadra
che riusciva a conquistare la maggioranza delle caselle, cioè quattro
su sette. Le difficoltà sopraggiungevano quando erano conquistate
le caselle di inizio da una squadra e pertanto all�altra non era consentito
appoggiare sul piede di proprietà avversaria. C�erano delle bambine
bravissime, capaci di a fare salti anche di tre caselle ed allungarsi
in equilibrio precario ma elegante su di esse per recuperare "u ndocciu".
In alcune occasioni, specie durante le ricreazioni scolastiche, anche
noi maschietti non disdegnavamo a cimentarci in competizione con le femminucce.
torna su -
torna indietro

"A corda": anche questo gioco, prettamente
femminile era uno dei passatempi preferiti. Consisteva nel saltare una
corta fatta roteare in aria da due ragazze. Si formavano le squadre che
prendevano il nome dai frutti più comuni, come ad esempio: <
pera, arancia, fragola, mandarino, limone, ecc. tanti frutti per quanti
erano i partecipanti al gioco che poteva essere individuale o a squadre.
Con l�immancabile "toccu" si determinava l�ordine di ingresso
al gioco, e mentre le due ragazze facevano roteare la corda, a turno i
partecipanti saltavano su un piede mentre la stessa doveva sfilare di
sotto senza ostacoli al ritmico e cantilenante recitare del rosario fruttifero:
pera, arancia, fragola, mandarino, limone. Il concorrente perdeva il turno
e veniva momentaneamente messo in disparte se inciampava sulla corda,
o, se non riusciva ad effettuare il salto della stessa ed il nome del
frutto su cui inciampava dava il turno al prossimo concorrente. Ricordo
ancora, quando da bambino, seduto sul terrazzo antistante la mia abitazione
sentivo la cantilena del gioco provenire dalla Torre, dove c�era una scuola
la cui maestra era la Signora Cognetta, oppure quando, ormai scolaro anch�io,
" �ndo spaziu" davanti l�abitazione del Segretario, sede di
un�altra scuola partecipavo a questo gioco insieme agli altri miei due
compagni di scuola: Mimmo Spizzica il figlio di compare Sarbu du re del
Serro e Vincenzo Cozzucoli, detto u Jocculu, dal soprannome del Padre,
unici tre maschi di un�intera classe femminile.
torna su -
torna indietro

"I rumbuli": Tra tutti i giochi dell�infanzia
questo forse era il più piacevole ed esclusivo dei ragazzi. "I
rumbuli", cioè le trottole, erano costruite in legno massiccio,
di solito legno duro, per offrire una resistenza ai colpi ed agli eventuali
"cuzzi" ( spiegherò dopo di che si tratta) da sopportare
una volta persala partita. Dunque erano fatte in legno, la maggior parte
di noi, dopo insistenti piagnistei riuscivano a convincere il papà
a costruirle e meglio se di legno di pero selvatico, "u pirainu",
a forma di cono rovesciato, con alla base un mezzo chiodo rovesciato,
dalla punta rivolta verso l�esterno ed arrotondata in modo che non facesse
fossa sul terreno, che serviva da perno su cui giravano, lisce oppure
con delle striature a forma di vite senza fine partendo dal vertice rovesciato
� il chiodo � fino a tre quarti di altezza. Per farle roteare vorticosamente
sul terreno si attorcigliava un pezzo di spago, "a lazza", di
circa un metro o poco più a seconda della loro grandezza o grossezza,
poi si passava una delle due estremità dello spago, munita di un
piccolo legnetto che serviva da fermo all�interno del dito anulare e medio
della mano, poi la si lanciava in aria in modo che "la lazza"
si srotolasse velocemente dando un movimento circolare che una volta toccata
terra, per la forza centripeta esercitata sul chiodo, a rumbula continuasse
a roteare per qualche tempo. Come di solito era a squadre o si giocava
singolarmente a turno. Si tracciavano sul terreno due linee parallele
distanti tra di loro circa sette-dieci metri, per determinare l�ordine
di gioco e chi doveva andare sotto si tracciava un cerchio e a turno si
lanciavano i rumbuli, a partire da quelle che atterravano vicino al centro
si stabiliva il turno, la più lontana era momentaneamente quella
che era sotto. Il gioco consisteva nel fare roteare i rumbuli, prenderle
in mano, facendo in modo che la rotazione continuasse il più possibile,
poi le si faceva sbattere su quella sutta spingendola da una linea all�altra,
chi non riusciva a far roteare abbastanza a rumbula e colpire l�altra
finchè questa era viva (cioè finchè il moto rotatorio
continuava), si definiva morta e prendeva il posto sutta. Di norma bisognava
fare almeno cinquanta volte ("i passati") tra le linee tracciate
sul terreno. Perdeva a rumbula, che alla conclusione delle passate, si
trovava sutta e doveva pagare sopportando "i cuzzi" anche �nchiuvati
ca petra" che i vincitori a turno a segno di spregio infliggevano
a chi perdeva. "I cuzzi" si davano appoggiando il chiodo da
rumbula vincitrice sulla sommità di quella che perdeva e per dare
più forza si batteva su di essa con una pietra. I risultati a volte
erano devastanti, i chiodi creavano dei buchi e gallerie sul legno, e
se questo non era abbastanza duro, aprivano letteralmente in due a rumbula
sutta distruggendola con conseguente pianto per avere avuto il giocattolo
rotto dello sfortunato proprietario. Per lanciare i rumbuli c�erano due
modi: il primo a suttamanu, il secondo a ccorpu. A seconda del modo di
lancio utilizzato si doveva caricare la lazza in modo diverso. A suttamanu
lo spago si teneva fisso verso l�alto della rumbula con un dito e poi
cominciando dal chiodo la si avvolgeva verso l�alto, un modo da principianti
che consentiva una rotazione abbastanza breve con rischio e pericolo di
farla morire prima di colpire l�altra.
A ccorpu lo spago veniva tenuto
fisso alla punta del chiodo, lo si faceva passare dalla parte superiore
della rumbula e giunto di nuovo al chiodo si arrotolava verso l�alto.
Per stringere di più a lazza e farla aderire alla rumbula spesso
la si insalivava in particolare nel primo tratto di circa 30 centimetri.
Ricordo che c�erano dei ragazzi così capaci che mai le loro "rumbule"
subivano l�onta dei cuzzi, ed altri ancora che già nel lancio stesso
colpivano la rumbula sutta, e rarissime volte, ma è capitato, il
colpo era talmente violento che la rumbula sutta colpita dal quel proiettile
roteante si spacca i due e più pezzi tra l�ilarità e del
malcontento dei presenti, l�ilarità perché si distruggeva
in sol colpo il giocattolo dell�avversario a terra, e malcontento perché
si finiva il turno di gioco e doveva cominciarne un altro. Il tempo così
trascorreva per ore ed ore lontano dai pericoli veri e propri. C�era ancora
una particolarità nelle rumbule, se queste roteando incontravano
filo, erba o lanuggine di vario genere lo arrotolavano al chiodo si definivano
ladre, se non sbaglio, era causato dalla squilibratura delle stesse e
dal chiodo troppo appuntito, e da bravi maestri si provvedeva ad equilibrarle�.
Come?, sfilando il chiodo dal suo alloggiamento ed inserendo una piccola
quantità di sterco di asina alla sua base rimettendo tutto al suo
posto dopo una doverosa stretta per fissare il chiodo per bene al legno.
Altra importanza rivestiva la qualità dello spago con cui si faceva
la lazza, meglio se questo era dello steso tipo della lenza o del filo
a piombo dei muratori. Ricordo infine personalmente di avere avuto una
bella "caddiata" da mio fratello più grande, perché
avevo scoperto e consumato in pochi giorni, un gomitolo regalato a mio
padre da suo fratello dell�America, di autentico e fine "rumaneddhu",
utilizzato da me o venduto a lire cinque a lazzata ai compagni di giochi.
torna su -
torna
indietro
"I Buttuni": Erano i nostri spiccioli, e come
tutti gli altri un gioco di terra. Si costruiva sul terreno una piccola
buca profonda circa 5 cm. e larga circa 10, ad una certa distanza da questa
si lanciava a turno in aria un pugno di bottoni, solitamente di diversa
forma, colore e grandezza, appartenenti ai diversi giocatori, ed una volta
sparsi sul terreno, si cominciava a spingerli verso la fossa con colpi
("i zziccardati") dati con il dito medio appoggiato sul pollice
che faceva da fulcro alla leva che si veniva a creare. Di solito per rendere
difficile e lungo il gioco era una sola zziccardata da dare ad ogni bottone,
che diveniva di proprietà se dopo il colpo andava a finire dentro
la buca, si perdeva il turno se non si riusciva con le zziccardate stabilite
a farli entrare nella buca. Il turno era determinato come al solito dal
sempre presente "toccu". Spesso per mancanza di materia prima
si strappavano i bottoni delle camicie o dei panatloni, e se la fortuna
ci aiutava si faceva "razza" vincendo, e le nostre tasche "bunache"
erano talmente piene da provocare un tintinnio ad ogni passo che si faceva.
Era ben guardato colui che camminando provocava un ticchettio o tintinnio
continuo, segno che era un ricco proprietario di bottoni.
torna su -
torna
indietro
""I Nucidhi":
Tipico giuoco natalizio di solito
cominciava con l'inizio dell'anno scolastico, cio� due mesi e mezzo
prima del Natale. Ogni bottega del paese portava le nocciole come frutta
secca che, oltre ad essere mangiata, serviva a noi bambini per i nostri
giuochi. Ci costavano dieci lire due castedhi , cio� dieci nocciole. Il
giuoco consisteva nel parare a castello le nocciole, tre come base ed
una alla sommit�, i partecipanti potevano essere diversi. Si paravano i
castedhi su una linea retta e poi dalla distanza di cinque/sei metri si
lanciava u mbadhu, costituito da una nocciola pi� grossa, da una pietra
rotondeggiante o meglio ancora, per chi ce l'aveva da una grossa biglia
in acciao. A seconda della perizia o della mira del giocatore, u mbadhu,
lanciato con maestria colpiva quasi sempre i castedhi delle nocciole e,
quelli scastidhati, cio� sparigliati dalla linea diventavano propriet�
del lanciatore. Si giocava a nu castedhu, due tre o addirittura quattru
castedhi per ogni partecipante. Le nostre tasche erano strapiene di
questo rumoroso frutto, ed era facile dal volume delle stesse ben
visibili esternamente, perch� portavamo i pantaloncini corti anche in
inverno, indovinare pi� o meno il numero dei castedhi di propriet� di
ognuno di noi. I pi� piccoli o le femminuccie non ancora abili cu mbadhu
giocavano a cila, ciledhu. Si formava un piano inclinato con una pietra,
con pezzo di cartone e si facevano scivolare le nocciole su di esso.
Quando il numero diventava consistente e a nucidha colpiva una sua
simile, allora il tutto diventava propriet� del lanciatore.
torna su -
torna
indietro
"I cciappi": Nella nostra fanciullezza non
esisteva la Panini di Modena con le sue figurine. Fortunatamente la Ferrero
di Alba, magari per incentivare il consumo di formaggini, sulla carta
esterna che li avvolgeva erano incollate delle figurine ("i cacci")
di forma triangolare, poi rettangolare e poi di forma circolare addirittura
metalliche, raffiguranti uccelli, animali, alberi e poi verso l�inizio
degli anni sessanta calciatori (le figurine rotonde e metalliche). Le
si raccoglievano, ma ancora non esistevano gli album su cui incollarle,
raggiunto un certo numero (da cinquecento a mille), quando passava il
rivenditore le si consegnavano e si aveva diritto al premio, un pallone
N° 3 completo di allacciatore, che ci veniva consegnato al successivo
giro di vendite, almeno dopo tre mesi di attesa e speranza di essere il
proprietario di un pallone N° 3 completo di allacciatore". Con
i doppioni, spesso merce di scambio con gli altri collezionisti, si giocava
e "cciappi", sempre gioco di terra. Utilizzando una pietra piatta
("u re") e di piccolo spessore delle dimensioni di 4x5 cm. appoggiata
a terra sul lato più lungo, si ponevano dietro le figurine messe
l�una sull�altra e da una certa distanza si lanciavano contro il re delle
pietre piatte, meglio se pezzi mattonelle in disuso, fortunato chi riusciva
a trovarle, facendole atterrare in prossimità del re che percorrendo
l�ultimo tratto scivolando sulla terra andavano a sbattere contro facendolo
cadere in modo da sparpagliare sul terreno le figurine di cui era la protezione.
Le figurine che si trovavano più vicine alla cciappa lanciata e
più lontane dal re divenivano di proprietà. Il turno di
lancio era determinato dal toccu. Con il passare degli anni le figurine
vennero sostituite dalle monetine da cinque e dieci lire e si diventava
ricchi quando magari si raggiungeva il gruzzolo cospicuo di cento lire.
Il tintinnio ovattato (perché sporche di fango) di queste nelle
nostre tasche era, come per i bottoni, segno di ricchezza e di rispetto
dei nostri coetanei meno fortunati.
torna su -
torna
indietro
 
"I Brigghja":
I birilli, a dire il vero questo
era uno gioco che si faceva una volta raggiunta l�età di almeno
dieci/dodici anni, era di diritto un gioco di adulti che, a posto delle
figurine o delle cinque lire mettevano le cinquanta o le cento lire, un
capitale non alla portata di noi ragazzini. Sul re, o birillo mastro si
ponevano in colonna le monete, una, due o un numero superiore per ogni
giocatore a seconda delle regole stabilite prima dell�inizio del gioco,
poi a turno da una distanza molto ampia, delle volte anche 20 metri, ogni
giocatore lanciava il proprio birillo contro il re cercando di farlo cadere
e spargere sul terreno le monete, che divenivano di proprietà se
più vicine al proprio attrezzo che si lasciava sul terreno fino
a quando ricominciavano il turno di gioco. Succedeva anche, che il giocatore
maldestro che non riusciva a colpire il re, ma che colpito dal o dai giocatori
seguenti spargeva le monete in prossimità del suo birillo e pertanto
ne diveniva proprietario (il cosiddetto "culu"), e alla fine
del gioco era diventato se non il più ricco almeno uno dei vincitori.
C�erano alcuni giocatori adulti che erano talmente bravi che a primo colpo,
con scivolata del birillo sul terreno andava a colpire il re con una botta
ben assestata mandandalo molto lontano, e le monete cadevano nel raggio
massimo di un metro dal proprio birillo, che diventavano tutte o quasi
tutte di sua proprietà, generando commenti di ammirazione da parte
di chi assisteva al gioco e maledizioni velate da parte degli altri concorrenti.
Ricordo che tra i migliori giocatori adulti Sarbu Billari, Paolu Scaramuzzino
soprannominato "Calenda" e Cumpari Vicenzu Musulinu du Ruvulu.
torna su -
torna
indietro
 
"U Circulu". Si andava alla ricerca continua
di cerchi di ferro dello spessore di un cm. circa, meglio se saldato alle
estremità della circonferenza, in mancanza i meno fortunati si
accontentavano dei cerchi delle botti di lamiera ("raietta")
di scarsa qualità con le etremità sovrapposte e fermate
da punti metallici sporgenti, causa di �mpuntamenti ad ogni giro del circolo
sulla martellina. La martellina era di filo di ferro usato per stendere
i panni o ferro da 5 liscio senza zigrinature lunga circa 50 cm. con una
estremita ricuva ad U e piegata ad angolo retto verso l�asse lungo, si
spingeva "u circulu" con essa e si percorrevano strade, viottoli,
scale, muri parapetti senza farlo cadere e continuamente in rotazione,
si facevano le corse di velocità o percorsi di destrezza con ostacoli
di vario genere che aumentavano le difficoltà. Per spingere il
cerchio si utilizzava la martellina in due modi, a ruota libera o a manu
d�intra.
A mano libera si spingeva solamente e non si poteva frenare o rallentare
la corsa del "circulu", riuscendo con difficoltà a fare
manovre di "lavota", cioè inversione di marcia, passaggi
stretti, superamento di ostacoli o scalini.
A manu d�indtra era molto più facile, si faceva passare la martellina
verso l�interno del "circulu" e roteandola di circa 180 gradi
verso l�esterno la parte ricurva ad U bloccava il "circulu"
alla martellina consentendo una maneggevole spinta e scorrevolezza dello
stesso. Consentiva frenate anche brusche, facili manovre su curve strette
e nelle discese teneva il "circulu" sempre vincolato alla martellina.
Normalmente le gare erano di velocità, ma anche di destrezza sul
greto delle fiumare saltando "timpe" o sui muri a difesa dei
torrenti al centro del paese, della larghezza di appena 50 cm. ed una
altezza sul piano stradale da un lato di circa un metro e di svariati
metri sul lato del torrente. Era tanto assiduo e frequente il gioco del
"circulu" che l�artrito tra lo stesso e la martellina, per il
continuo uso, generava un piccolo solco sulla curvatura ad U che nel giro
massimo di quindici giorni ne consumava il ferro spezzandolo. Non ricordo
mai cadute di qualcuno sul lato più alto, ma verso il piano stradale
erano molto frequenti, con sbucciature ed ammaccature alle ginocchia e
sangue che colava fino a quando per tamponare le ferite e facilitare la
coagulazione veloce dello stesso ci buttavamo sopra polvere o fango, non
avendo tutti "u maccatureddhu" per fasciarle e coprirle. Per
avere un "circulu" perfetto di circonferenza e spessore e addirittura
elettrosaldato, non ebbi paura a disfare con pinza e tenaglia un braciere
di rame nuovissimo, dato in dote alla mia povera mamma dalla nonna materna
e tenuto conservato gelosamente nel magazzino di casa, per darlo poi in
dote ad una delle mie sorelle.
torna su -
torna
indietro
"Papagilormu": Era una specie di palla prigioniera
e palla liberata senza palla. Mi spiego meglio non c�era nessuna palla,
a toccu si determinava chi doveva fare il "Papagilormu" che
era proprietario di un pezzo di terreno delimitato da una linea semicircolare
che chiudeva di solito verso un muro o ostacolo fisso non superabile,
all�interno dei questo terreno "u papagilormu" aveva libertà
di correre a difesa di prigionieri che catturava nelle sortite della proprietà
con un semplice tocco di fazzoletto sulla persona inseguita. La difficoltà
per lo stesso consisteva nel fatto che all�esterno della sua casa doveva
procedere saltellando a "zoppa a zoppa" su una gamba, mentre
all�interno della stessa aveva la facoltà di correre su tutte e
due le gambe. I giocatori con sortite improvvise tentavano di violare
la casa entrando dentro i suoi confini e liberavano con un tocco i prigionieri
lì custoditi, prestando la massima attenzione a non farsi toccare
dal "papagilormu", diventando essi stessi prigionieri. Se il
papagilormu, nelle sue sortite "zoppa zoppa", malauguratamente
si stancava, al grido di "a ritirata" su tutte e due le gambe,
che determinava la fine della caccia, rientrava nella sua casa e se nel
tragitto veniva raggiunto dai giocatori erano mazzate, tumpuluni e scorci
i coddhu che buscava per esser venuto meno all�obbligo del "zoppa
a zoppa". Esso poteva nominare tra i prigionieri delle persone di
fiducia che chiamava suoi figli con il nome degli stessi, che demandava
nelle uscite a caccia di altri prigionieri. Al grido di "nesci u
papagilormu cu tutti i so figghi, c�era un fuggi generale perché
(come si dice l�unione fa la forza), più alto era il numero dei
figli più facilmente si diventava prigionieri. Al contrario, quando
la sortita era del solo "papagilormu" e di uno o di pochi dei
suoi figli era più facile sottrarsi alla cattura ed al momento
della "ritirata" dare più scappellotti, spintoni e botte
da "orbi".
torna su -
torna
indietro
"Peppi venatindi": Gioco molto simile a quello
di "cchiappari e mmucciari" combinati insieme. La mamma cioè
colui che era sutta, contava di solito fino a trenta e trentuno appoggiato
ad un palo o ad un muro, mentre gli altri si nascondevano. Quando si raggiungevano
nascondigli sicuri si dava l�inizio al grido di "peppi venatindi",
cioè si autorizzava chi era sutta ad iniziare la ricerca di chi
si nascondeva. Questi di corsa, sempre di corsa scovava i partecipanti
al gioco e bloccatili li faceva suoi prigionieri fino a quando l�ultimo
veniva bloccato, naturalmente, come il "papagilormu" c�era una
prigione dove portava i suoi ostaggi, che, se non ricordo male, non potevano
essere liberati. Era un gioco di resistenza e fiato da parte di "peppi
venatindi" che a turno rincorreva tutti gli altri, il campo di gioco
non aveva limiti e si svolgeva per tutte le stradine del paese, poco illuminate.
Era un gioco che di norma si faceva nelle sere d�inverno forse perché
le trafelate corse di noi ragazzi servivano a tenerci caldi, non esistevano
infatti né giubotti di piuma d�oca, né cappotti, ma maglioni
di lana che si comprava dal pecoraio filata e tessuta ai ferri dalle nostre
mamme e nonne. Ricordo le nostre facce sempre rosse per il freddo ed il
moccolo penzolante dai nostri nasi quando, nella frenetica corsa del gioco,
non si riusciva nemmeno a "zzucari u nasu" o a sfregarlo sul
dorso delle maniche all�altezza dei polsini per asciugarlo.
"Una monta": Il gioco consisteva nello scavalcare un giocatore
chino sulle ginocchia recitando una specie di scioglilingua che ricordo appena e faceva cos�: una monta,
due il bue, tre la figlia del re ecc. ecc. I giocatori che partecipavano al gioco erano almeno cinque e si andava
sutta quando qualcuno dimenticava il numero del suo turno e recitava un altro .... se ricordo bene.
torna su -
torna
indietro
"Scarrica canali": Anche questo era un gioco
che impegnava il nostro tempo libero, e si che ne avevamo di tempo libero
nella nostra infanzia, "i surbizza" li facevamo di rado, "i
lizioni" di scuola non ne parliamo. L�importante era trascorrere
il tempo, ed in ozio non poltrivamo quasi mai. Dunque questo gioco di
norma era praticato in luoghi coperti, specie nelle giornate piovose o
quando nevicava, una volta nevicava ed anche tanto, serviva anche per
riscaldarci. Le squadre erano due, una andava "sutta" e l�altra
comandava il gioco. I giocatori che andavano sutta, 4 o 5, si appoggiavano
al bordo di un muro uno dietro l�altro con il capo chino e la schiena
incurvata in avanti in modo da formare una lunga schiena d�asino, gli
altri giocatori, prenendo una breve rincorsa, appoggiando le mani sulla
schiena dell�ultimo della fila per avere maggiore slancio, andavano ad
atterrare a cavalcioni sulle schiene di quelle che erano sutta. Succedeva
che sulla schiena di un solo ragazzo trovavano posizione delle volte anche
di due, con sofferenza e sopportazione per il peso. I giocatori che si
trovavano a cavalcioni sulle schiene degli altri non dovevano assolutamente
appoggiare i piedi a terra se non andavo sutta a loro volta. Il gioco
si ripeteva per periodo anche abbastanza lunghi. Mi ricordo che ci si
accaniva in modo particolare con coloro con cui al momento non correva
buon sangue, e si faceva in modo di caricarli di peso, in modo che dopo,
per la fatica sopportata "pisciavunu u lettu", un modo per spiegare
la spossatezza di coloro che durante tutta una partita facevano sempre
da soma.
torna su -
torna
indietro
"A mmucciari": In italiano a nascondino. C�era
sempre u toccu che decideva chi andava sutta, che con la faccia appoggiata
ad un palo, un bordo di muro, cioè la casa del gioco, per non vedere
dove gli altri andavano a nascondersi. Doveva contare fino a trentuno
prima di mettersi alla ricerca di coloro che si erano nascosti, che una
volta scovati venivano momentaneamente esclusi dal gioco. Se chi era sutta
riusciva con ordine a trovare tutti i giocatori, il primo ad essere visto
doveva fare lui u sutta. Era consentito ai giocatori salvarsi toccando
la casa senza essere visto, oppure raggiungendola prima du sutta. L�ultimo
rimasto in gioco aveva l�opportunità di salvare tutti i giocatori.
Risuona ancora nelle mie orecchie la cantinelante conta: uno, due, tre
��.. trenta e trentunu cu si mmucciau mmucciau, sinnò non si mmuccia
cchiù, oppure l�urtimu sarba a tutti.
torna su -
torna
indietro
"A cchiappari": Sempre il solito unu era sutta
che doveva, delle volte correndo a perdifiato, acchiappare gli altri uno
alla volta, chia era cchiappatu doveva fermarsi sul posto, in attesa di
qualcuno di coloro che ancora erano liberi per essere liberati. Il gioco
finiva quando tutti erano presi e ricomnciava subito dopo un altro e a
fare u sutta era il primo che era stato acchiappato. D�inverno era piacevole
dopo poche corse sentirsi accaldati dalla testa ai piedi, ma in estate
le sudate, e che sudate, per poi recarsi ad una delle poche fontane pubbliche
esistenti, dissetarsi, magari spingendoci tra di noi, e poi bagnarsi la
testa per rinfrescarsi. A pensarci bene, tutti questi giochi di gruppo
avevano la caratteristica comune del correre, correre per non farsi prendere.
Probabilmente che li aveva pensati per prima aveva scoperto il modo più
sano per tenersi caldi in inverno e per tenere il fisico sempre in movimento
il corpo. Poi l�appetito non mancava, con grande soddisfazione dei nostri
genitori che ci vedevano mangiare volentieri: fascioli chi cavuli con
dentro carchi pezzu i saliprisa e pani cottu, cordi i saddizzu e suppizzati,
furmaggiu pecurinu, fica e castagni �nfurnati, ecc., ecc.
torna su -
torna
indietro
"U carru armatu": Chi ha avuto la fortuna
di avere dei cuscinetti a sfera (per l�esattezza 3) ed un papà
disponibile aveva costruito il suo " carru armatu ". Fatto con
una tavola di circa 70 cm. di lunghezza e 30 cm. di larghezza, un asse
posteriore di legno dello spessore del cuscinetto a sfera, un buco centrale
nella parte anteriore attraverso il quale con una forcella di legno ed
un�asse trasversale, lo sterzo, era collegata a alla ruota anteriore.
Era una specie di Skate board a tre ruote, ma non si andava in piedi,
ma bensì sdraiati sulla pancia e giù per le discese terrose.
Ma succedeva che la terra intasava i cuscinetti poco lubrificati e bloccava
il loro rotolamento, ed allora si andava tutti in piazza davanti alla
chiesa, allora l�unico spazio disponibile in cemento. Oppure dietro l�esempio
di qualche temerario sui muri che facevano da argine al torrente Jovani,
in precario equilibrio con il pericolo di cadere al di là sul greto
del torrente. E� anche successo a qualcuno con qualche ammaccatura e null�altro,
il greto del torrente era di terra e perfino pulito. Si andava da soli,
in due o anche in tre, e spesso il terzo quando la velocità rallentava
doveva spingere per riacquistare " furienza ".
torna su -
torna
indietro
Poi incominciò ad arrivare anche in paese il benessere, e si poteva
vederlo. Comparvero le prime biciclette, prima appannaggio dei figli di
papà, con tromba ( pli-plò) a fiato oltre il campanello,
con delle stringhe in plastica colorata che pendevano dai lati del manubrio.
Era un�infanzia innocente, non c�erano invidie, il figlio di papà
giocava con il figlio del proletario, tutto nella normalità di
un mondo semplice e privo di cattiveria. Forse la cattiveria che esisteva
in noi era solo una forma di vendetta contro coloro che ci stavano antipatici,
non si rivolgeva la parola, o tutt�al più ci si faceva qualche
piccolo dispetto.
Poi siamo cresciuti, i nostri genitori ci hanno mandato a scuola, siamo
usciti dal paese, abbiamo trovato una sistemazione, ci siamo creati una
famiglia, e a Fossato i giochi di una volta, forse sono rimasti un lontano
ricordo nella nostra mente. Le generazioni di giovani che sono venuti
dopo di noi, hanno avuto i motorini, le vespe, le macchine, il portafoglio
pieno, il loro è diventato un divertimento solitario, si parte,
si va in giro, si consuma benzina e � non ci si diverte. E� il benessere
! ! !
|
|