I VECCHI GIOCHI IN DETTAGLIO
"Mazza e pirigghu": gli attrezzi erano due,
di legno, più o meno dritti e privi di nodi (l’evoluzione degli
attrezzi avvenne quando comparvero nelle case le prime scope di saggina,
i cui manici dritti e lisci erano il non plus ultra della maneggevolezza
e della modernità), la cui sottrazione alle nostre mamme determinava
rimproveri per aver rovinato una bella scopa che puliva u sularu o la
terra battuta dei pavimenti delle nostre povere ma linde case. Uno della
lunghezza di circa 20-25 cm. con le estremità appuntite in modo
da avere un innalzamento da terra di circa due centimetri (U pirigghu),
l’atra la mazza della lunghezza di circa 60-70 cm.. Il gioco era individuale
o a squadre, si tracciava una riga a terra, col mazza stessa più
o meno della sua lunghezza, era la casa, si "jittava u toccu"
per chi doveva cominciare il gioco, si appoggiava u pirigghu sulla testa
da una delle due punte e si lasciava cadere davanti a propri piedi, poi
con la mazza si batteva con violenza sulla punta nella direzione opposta
a quella della riga e poi mentre questo rimbalzava si colpiva a volo per
farlo allontanare il più possibile dalla riga, i colpi ammessi
di solito erano due, e c’erano alcuni ragazzi talmente bravi che dopo
il primo o il secondo colpo, mentre ancora u pirigghu era in aria mollavano
la seconda botta al volo per allontanarlo ancora di più (delle
volte si raggiungevano distanze di 50 e molti più metri). La squadra
che era "sutta", una volta che u pirigghu si fermava, raccolto
lo stesso a turno i componenti della squadra, uno alla volta dovevano
lanciarlo verso la mazza posta sulla riga tracciata per terra e se la
colpiva prendeva il gioco, se invece non si riusciva la squadra avversaria
con lo stesso procedimento di battitura lo allontanava il più possibile
dalla riga e dopo il numero di colpi stabilito si misurava la distanza
con la mazza, trenta, quaranta, cento e più mazzate questi rappresentavano
il monte punti accumulati. Tantissime volte il monte era di mille mazzate
e naturalmente il gioco durava ore ed ore. Vinceva la squadra che per
prima raggiungeva il monte delle mille mazzate. Capitava che in Piazza
Municipio, qualche vetro, che dico il vetro delle finestre del Municipio
forse il solo che esisteva nelle imposte delle case dei dintorni, delle
volte andava in frantumi tra un fuggi fuggi generale ed intervento della
forza dell’"Ordine Pubblico", la Guardia Municipale Don Emanuele,
che con cipiglio e serietà faceva finta di annotare sulla scatola
dei fiammiferi il nome del colpevole.
"A fionda":
Una forcina di legno, due elastici
neri (fortunato ritrovamento di qualche camera d’aria), un pezzo di tomaia
di cuoio e dei legacci di spago. Si legavano le estremità degli
elastici da una parte alle punte delle forcine e dall’altra al pezzo di
tomaia, a cui erano praticate delle leggere fessure "i cchetti"per
far scorre dentro l’elastico, in modo da formare una scarcella delle dimensioni
di circa sei centimetri per quattro, il posto della munizione prima di
essere scagliata stirando gli elastici facendo leva e forza sulla forcina
e sulla scarcella, le munizioni erano pietruzze più o meno rotonde
della grandezza di circa una nocciola. Le nostre tasche erano talmente
piene e pesanti che "i bunachi" spuntavano sempre al di sotto
dei nostri pantaloni rigorosamente corti anche nel pieno dell’inverno.
La fionda si usava per andare a caccia di lucertole, e di uccelli di piccola
taglia e come per l’arco anche per tiri di precisione a bersagli mobili
o fissi. "U carè": (Il campanaro), gioco esclusivamente
femminile era il divertimento principale delle ragazzine. Si tracciavano
per terra, sempre la terra polverosa e fangosa, con una pietra appuntita
delle caselle così come nell’immagine in intestazione alla pagina,
poi a turno, determinato dall’immancabile "toccu" singolarmente
o a squadre, si lanciava all’indietro una pietra piatta "u ‘Ndocciu",
delle dimensioni di 4x5 circa, con le spalle rivolte al carè cercando
di farla atterrare in una delle caselle dello stesso che poi si andava
a raccogliere saltellando su una gamba casella per casella ad esclusione
di quella momentaneamente casa du "ndocciu", facendo attenzione
di non toccare le righe o di non appoggiare l’altro piede a terra, se
no si andava "sutta". Completate correttamente le caselle si
ripeteva lo stesso lancio e si conquistava la casella dove si fermava
la pietra lanciata, e, come segno si tracciava una grossa X contrassegno
dell’una ed un O come contrassegno dell’altra squadra. Vinceva la squadra
che riusciva a conquistare la maggioranza delle caselle, cioè quattro
su sette. Le difficoltà sopraggiungevano quando erano conquistate
le caselle di inizio da una squadra e pertanto all’altra non era consentito
appoggiare sul piede di proprietà avversaria. C’erano delle bambine
bravissime, capaci di a fare salti anche di tre caselle ed allungarsi
in equilibrio precario ma elegante su di esse per recuperare "u ndocciu".
In alcune occasioni, specie durante le ricreazioni scolastiche, anche
noi maschietti non disdegnavamo a cimentarci in competizione con le femminucce.
"A corda": anche questo gioco, prettamente
femminile era uno dei passatempi preferiti. Consisteva nel saltare una
corta fatta roteare in aria da due ragazze. Si formavano le squadre che
prendevano il nome dai frutti più comuni, come ad esempio: <
pera, arancia, fragola, mandarino, limone, ecc. tanti frutti per quanti
erano i partecipanti al gioco che poteva essere individuale o a squadre.
Con l’immancabile "toccu" si determinava l’ordine di ingresso
al gioco, e mentre le due ragazze facevano roteare la corda, a turno i
partecipanti saltavano su un piede mentre la stessa doveva sfilare di
sotto senza ostacoli al ritmico e cantilenante recitare del rosario fruttifero:
pera, arancia, fragola, mandarino, limone. Il concorrente perdeva il turno
e veniva momentaneamente messo in disparte se inciampava sulla corda,
o, se non riusciva ad effettuare il salto della stessa ed il nome del
frutto su cui inciampava dava il turno al prossimo concorrente. Ricordo
ancora, quando da bambino, seduto sul terrazzo antistante la mia abitazione
sentivo la cantilena del gioco provenire dalla Torre, dove c’era una scuola
la cui maestra era la Signora Cognetta, oppure quando, ormai scolaro anch’io,
" ‘ndo spaziu" davanti l’abitazione del Segretario, sede di
un’altra scuola partecipavo a questo gioco insieme agli altri miei due
compagni di scuola: Mimmo Spizzica il figlio di compare Sarbu du re del
Serro e Vincenzo Cozzucoli, detto u Jocculu, dal soprannome del Padre,
unici tre maschi di un’intera classe femminile. "I rumbuli": Tra tutti i giochi dell’infanzia
questo forse era il più piacevole ed esclusivo dei ragazzi. "I
rumbuli", cioè le trottole, erano costruite in legno massiccio,
di solito legno duro, per offrire una resistenza ai colpi ed agli eventuali
"cuzzi" ( spiegherò dopo di che si tratta) da sopportare
una volta persala partita. Dunque erano fatte in legno, la maggior parte
di noi, dopo insistenti piagnistei riuscivano a convincere il papà
a costruirle e meglio se di legno di pero selvatico, "u pirainu",
a forma di cono rovesciato, con alla base un mezzo chiodo rovesciato,
dalla punta rivolta verso l’esterno ed arrotondata in modo che non facesse
fossa sul terreno, che serviva da perno su cui giravano, lisce oppure
con delle striature a forma di vite senza fine partendo dal vertice rovesciato
– il chiodo – fino a tre quarti di altezza. Per farle roteare vorticosamente
sul terreno si attorcigliava un pezzo di spago, "a lazza", di
circa un metro o poco più a seconda della loro grandezza o grossezza,
poi si passava una delle due estremità dello spago, munita di un
piccolo legnetto che serviva da fermo all’interno del dito anulare e medio
della mano, poi la si lanciava in aria in modo che "la lazza"
si srotolasse velocemente dando un movimento circolare che una volta toccata
terra, per la forza centripeta esercitata sul chiodo, a rumbula continuasse
a roteare per qualche tempo. Come di solito era a squadre o si giocava
singolarmente a turno. Si tracciavano sul terreno due linee parallele
distanti tra di loro circa sette-dieci metri, per determinare l’ordine
di gioco e chi doveva andare sotto si tracciava un cerchio e a turno si
lanciavano i rumbuli, a partire da quelle che atterravano vicino al centro
si stabiliva il turno, la più lontana era momentaneamente quella
che era sotto. Il gioco consisteva nel fare roteare i rumbuli, prenderle
in mano, facendo in modo che la rotazione continuasse il più possibile,
poi le si faceva sbattere su quella sutta spingendola da una linea all’altra,
chi non riusciva a far roteare abbastanza a rumbula e colpire l’altra
finchè questa era viva (cioè finchè il moto rotatorio
continuava), si definiva morta e prendeva il posto sutta. Di norma bisognava
fare almeno cinquanta volte ("i passati") tra le linee tracciate
sul terreno. Perdeva a rumbula, che alla conclusione delle passate, si
trovava sutta e doveva pagare sopportando "i cuzzi" anche ‘nchiuvati
ca petra" che i vincitori a turno a segno di spregio infliggevano
a chi perdeva. "I cuzzi" si davano appoggiando il chiodo da
rumbula vincitrice sulla sommità di quella che perdeva e per dare
più forza si batteva su di essa con una pietra. I risultati a volte
erano devastanti, i chiodi creavano dei buchi e gallerie sul legno, e
se questo non era abbastanza duro, aprivano letteralmente in due a rumbula
sutta distruggendola con conseguente pianto per avere avuto il giocattolo
rotto dello sfortunato proprietario. Per lanciare i rumbuli c’erano due
modi: il primo a suttamanu, il secondo a ccorpu. A seconda del modo di
lancio utilizzato si doveva caricare la lazza in modo diverso. A suttamanu
lo spago si teneva fisso verso l’alto della rumbula con un dito e poi
cominciando dal chiodo la si avvolgeva verso l’alto, un modo da principianti
che consentiva una rotazione abbastanza breve con rischio e pericolo di
farla morire prima di colpire l’altra.
""I Nucidhi": Tipico giuoco natalizio di solito cominciava con l'inizio dell'anno scolastico, cioè due mesi e mezzo prima del Natale. Ogni bottega del paese portava le nocciole come frutta secca che, oltre ad essere mangiata, serviva a noi bambini per i nostri giuochi. Ci costavano dieci lire due castedhi , cioè dieci nocciole. Il giuoco consisteva nel parare a castello le nocciole, tre come base ed una alla sommità, i partecipanti potevano essere diversi. Si paravano i castedhi su una linea retta e poi dalla distanza di cinque/sei metri si lanciava u mbadhu, costituito da una nocciola più grossa, da una pietra rotondeggiante o meglio ancora, per chi ce l'aveva da una grossa biglia in acciao. A seconda della perizia o della mira del giocatore, u mbadhu, lanciato con maestria colpiva quasi sempre i castedhi delle nocciole e, quelli scastidhati, cioè sparigliati dalla linea diventavano proprietà del lanciatore. Si giocava a nu castedhu, due tre o addirittura quattru castedhi per ogni partecipante. Le nostre tasche erano strapiene di questo rumoroso frutto, ed era facile dal volume delle stesse ben visibili esternamente, perchè portavamo i pantaloncini corti anche in inverno, indovinare più o meno il numero dei castedhi di proprietà di ognuno di noi. I più piccoli o le femminuccie non ancora abili cu mbadhu giocavano a cila, ciledhu. Si formava un piano inclinato con una pietra, con pezzo di cartone e si facevano scivolare le nocciole su di esso. Quando il numero diventava consistente e a nucidha colpiva una sua simile, allora il tutto diventava proprietà del lanciatore. "I cciappi": Nella nostra fanciullezza non
esisteva la Panini di Modena con le sue figurine. Fortunatamente la Ferrero
di Alba, magari per incentivare il consumo di formaggini, sulla carta
esterna che li avvolgeva erano incollate delle figurine ("i cacci")
di forma triangolare, poi rettangolare e poi di forma circolare addirittura
metalliche, raffiguranti uccelli, animali, alberi e poi verso l’inizio
degli anni sessanta calciatori (le figurine rotonde e metalliche). Le
si raccoglievano, ma ancora non esistevano gli album su cui incollarle,
raggiunto un certo numero (da cinquecento a mille), quando passava il
rivenditore le si consegnavano e si aveva diritto al premio, un pallone
N° 3 completo di allacciatore, che ci veniva consegnato al successivo
giro di vendite, almeno dopo tre mesi di attesa e speranza di essere il
proprietario di un pallone N° 3 completo di allacciatore". Con
i doppioni, spesso merce di scambio con gli altri collezionisti, si giocava
e "cciappi", sempre gioco di terra. Utilizzando una pietra piatta
("u re") e di piccolo spessore delle dimensioni di 4x5 cm. appoggiata
a terra sul lato più lungo, si ponevano dietro le figurine messe
l’una sull’altra e da una certa distanza si lanciavano contro il re delle
pietre piatte, meglio se pezzi mattonelle in disuso, fortunato chi riusciva
a trovarle, facendole atterrare in prossimità del re che percorrendo
l’ultimo tratto scivolando sulla terra andavano a sbattere contro facendolo
cadere in modo da sparpagliare sul terreno le figurine di cui era la protezione.
Le figurine che si trovavano più vicine alla cciappa lanciata e
più lontane dal re divenivano di proprietà. Il turno di
lancio era determinato dal toccu. Con il passare degli anni le figurine
vennero sostituite dalle monetine da cinque e dieci lire e si diventava
ricchi quando magari si raggiungeva il gruzzolo cospicuo di cento lire.
Il tintinnio ovattato (perché sporche di fango) di queste nelle
nostre tasche era, come per i bottoni, segno di ricchezza e di rispetto
dei nostri coetanei meno fortunati.
"I Brigghja":
I birilli, a dire il vero questo
era uno gioco che si faceva una volta raggiunta l’età di almeno
dieci/dodici anni, era di diritto un gioco di adulti che, a posto delle
figurine o delle cinque lire mettevano le cinquanta o le cento lire, un
capitale non alla portata di noi ragazzini. Sul re, o birillo mastro si
ponevano in colonna le monete, una, due o un numero superiore per ogni
giocatore a seconda delle regole stabilite prima dell’inizio del gioco,
poi a turno da una distanza molto ampia, delle volte anche 20 metri, ogni
giocatore lanciava il proprio birillo contro il re cercando di farlo cadere
e spargere sul terreno le monete, che divenivano di proprietà se
più vicine al proprio attrezzo che si lasciava sul terreno fino
a quando ricominciavano il turno di gioco. Succedeva anche, che il giocatore
maldestro che non riusciva a colpire il re, ma che colpito dal o dai giocatori
seguenti spargeva le monete in prossimità del suo birillo e pertanto
ne diveniva proprietario (il cosiddetto "culu"), e alla fine
del gioco era diventato se non il più ricco almeno uno dei vincitori.
C’erano alcuni giocatori adulti che erano talmente bravi che a primo colpo,
con scivolata del birillo sul terreno andava a colpire il re con una botta
ben assestata mandandalo molto lontano, e le monete cadevano nel raggio
massimo di un metro dal proprio birillo, che diventavano tutte o quasi
tutte di sua proprietà, generando commenti di ammirazione da parte
di chi assisteva al gioco e maledizioni velate da parte degli altri concorrenti.
Ricordo che tra i migliori giocatori adulti Sarbu Billari, Paolu Scaramuzzino
soprannominato "Calenda" e Cumpari Vicenzu Musulinu du Ruvulu.
"U Circulu". Si andava alla ricerca continua di cerchi di ferro dello spessore di un cm. circa, meglio se saldato alle estremità della circonferenza, in mancanza i meno fortunati si accontentavano dei cerchi delle botti di lamiera ("raietta") di scarsa qualità con le etremità sovrapposte e fermate da punti metallici sporgenti, causa di ‘mpuntamenti ad ogni giro del circolo sulla martellina. La martellina era di filo di ferro usato per stendere i panni o ferro da 5 liscio senza zigrinature lunga circa 50 cm. con una estremita ricuva ad U e piegata ad angolo retto verso l’asse lungo, si spingeva "u circulu" con essa e si percorrevano strade, viottoli, scale, muri parapetti senza farlo cadere e continuamente in rotazione, si facevano le corse di velocità o percorsi di destrezza con ostacoli di vario genere che aumentavano le difficoltà. Per spingere il cerchio si utilizzava la martellina in due modi, a ruota libera o a manu d’intra. A mano libera si spingeva solamente e non si poteva frenare o rallentare la corsa del "circulu", riuscendo con difficoltà a fare manovre di "lavota", cioè inversione di marcia, passaggi stretti, superamento di ostacoli o scalini.
A manu d’indtra era molto più facile, si faceva passare la martellina
verso l’interno del "circulu" e roteandola di circa 180 gradi
verso l’esterno la parte ricurva ad U bloccava il "circulu"
alla martellina consentendo una maneggevole spinta e scorrevolezza dello
stesso. Consentiva frenate anche brusche, facili manovre su curve strette
e nelle discese teneva il "circulu" sempre vincolato alla martellina.
Normalmente le gare erano di velocità, ma anche di destrezza sul
greto delle fiumare saltando "timpe" o sui muri a difesa dei
torrenti al centro del paese, della larghezza di appena 50 cm. ed una
altezza sul piano stradale da un lato di circa un metro e di svariati
metri sul lato del torrente. Era tanto assiduo e frequente il gioco del
"circulu" che l’artrito tra lo stesso e la martellina, per il
continuo uso, generava un piccolo solco sulla curvatura ad U che nel giro
massimo di quindici giorni ne consumava il ferro spezzandolo. Non ricordo
mai cadute di qualcuno sul lato più alto, ma verso il piano stradale
erano molto frequenti, con sbucciature ed ammaccature alle ginocchia e
sangue che colava fino a quando per tamponare le ferite e facilitare la
coagulazione veloce dello stesso ci buttavamo sopra polvere o fango, non
avendo tutti "u maccatureddhu" per fasciarle e coprirle. Per
avere un "circulu" perfetto di circonferenza e spessore e addirittura
elettrosaldato, non ebbi paura a disfare con pinza e tenaglia un braciere
di rame nuovissimo, dato in dote alla mia povera mamma dalla nonna materna
e tenuto conservato gelosamente nel magazzino di casa, per darlo poi in
dote ad una delle mie sorelle.
Poi incominciò ad arrivare anche in paese il benessere, e si poteva vederlo. Comparvero le prime biciclette, prima appannaggio dei figli di papà, con tromba ( pli-plò) a fiato oltre il campanello, con delle stringhe in plastica colorata che pendevano dai lati del manubrio. Era un’infanzia innocente, non c’erano invidie, il figlio di papà giocava con il figlio del proletario, tutto nella normalità di un mondo semplice e privo di cattiveria. Forse la cattiveria che esisteva in noi era solo una forma di vendetta contro coloro che ci stavano antipatici, non si rivolgeva la parola, o tutt’al più ci si faceva qualche piccolo dispetto. Poi siamo cresciuti, i nostri genitori ci hanno mandato a scuola, siamo usciti dal paese, abbiamo trovato una sistemazione, ci siamo creati una famiglia, e a Fossato i giochi di una volta, forse sono rimasti un lontano ricordo nella nostra mente. Le generazioni di giovani che sono venuti dopo di noi, hanno avuto i motorini, le vespe, le macchine, il portafoglio pieno, il loro è diventato un divertimento solitario, si parte, si va in giro, si consuma benzina e … non ci si diverte. E’ il benessere ! ! ! |