"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

 

 

LA MAESTOSITA' DELLA VALLE

Una mattina d’agosto mi levai prima di giorno e salii ai campi, l'altopiano che sovrasta le valli. Mi arrampicai nell'alitare tiepido dell'aurora su per la pista che si aggrappa come spire di serpente ai fianchi di Lungìa e si srotola poi nella polvere ocra del pianoro che prende lo stesso nome. Il pungente odore dell’erba umida e della polvere rappresa mi inebriava; mi frastornava il fremito ctonio, l’arioso pulsare sotterraneo del sangue scuro di questa terra per nulla pacificata. Nelle sue grotte della Lamia, in antico, fu seppellito il dolore dei padri. Quello stesso dolore che fu liberato da un vento nero e si sparse per le vallate fino alle marine.  Salii senza sosta fino in alto. Poi mi fermai accanto alle severe ginestre dell’ultimo tornante.

 L'alba tingeva il cielo di striature di rame e già schiariva il panorama aspro. Le stelle con spasmi di luce, sguardo di mille ragazze innamorate, a una a una si spegnevano mute. Il paese, affogato nell’aria fumosa di foschia, era acciambellato nel torpore sonnolento degli incavi della montagna alla confluenza dei tre fiumi di pietra. Laggiù in basso, dove la vallata prende respiro allargandosi, il ponte legava le sponde della fiumara più grande come un gigantesco braccio di cemento. A nord la cicatrice della rupe d'arenaria era butterata di massi sporgenti come ossa smussate della terra granulosa che aveva perso consistenza e mordente. Il silenzio era dilatato dal vento nello spazio maestoso percorso da candide nuvole in corsa. La luce del primo mattino rendeva impossibile fissare lo sguardo sul barbaglio dell'orizzonte.

Ero sulla cima  del Torrione, il mio segreto sacrario di bellezza incontaminata. Lo portavo negli occhi e nel cuore e gli altri non vedevano, ce l'avevano davanti quel bastione arcigno che si colora di miele alle fiamme stemperate del tramonto e non se ne accorgevano. Da quell'acropoli della natura schiaffeggiata dal vento, lontano dal frastuono della vita quotidiana e ai margini della storia, era inebriante la vista di quel paesaggio eteroclito. Quella terra che non ha ancora perso dignità risplendeva nella solitudine inondata dalla luminosità jonica del mattino.

Chi dalla Portella del Nero arriva fino a quel balcone naturale, dove il vento ruba il calore del sole, si trova già nell'immenso cuore dell'Aspromonte solitario, dolente, assorto, malinconico. Ai suoi piedi si distende la conca verde di ginestre e rovi che soppiantarono dimenticate vigne. Il largo cratere chiazzato di pini defluisce in basso nei gorghi di una tortuosa gola di acacie che via via cedono ad aceri e betulle fin dove il dorso a schiena di mulo della Fontana Vecchia si incunea con secolare protervia nel fianco sinistro del contrafforte opposto.

Se si scavalca con l'occhio il Taglio del Morto e poi il dito di pietra del  Taglio di Martino, si vede fluttuare nell'aria di levante la remota Calabria frumentaria, con San Lorenzo e San Pantaleo a punteggiare l'immensità marina del giallo delle stoppie riarse dal sole. E poi Roccaforte, la montana Vunì, e dietro l’aristocratica Chora grecanica, Vùa, Bova, che nella lontananza, dove si annida il silenzio, sembra sospesa tra la linea di un orizzonte fatto di niente e il tempo.

Più a Sud, sovrastando la catena di colline e avvallamenti coperti di ulivi e querce, dove sfondo è il mare che sconfina nel nulla lattiginoso, Monte Scarrone cuspidato e la mammella calva di Punta d'Argento. E poi nelle marine le gibbosità grifagne delle rocche zoomorfe,  le inappagate pietre camminanti: la Rocca di Santa Lena, che cova uova d'oro secondo una sopita leggenda e grida al cielo il puntuto dolore della terra,  e dietro l’altra compagna di Smiroddo, la Rocca di Smeraldo, verde di muschio, e poi stagliate nel cielo le dita di pietra lunare di Pentidattilo, che emergono da un mare di restuccia abbacinante. In fondo, il mare vero di scaglie luminose, non ancora di acque occidentali e latine, che affoga nel piatto lucore verdazzurro. Quel mare senza cuore e senza storia; quel mare vicino e nemico, nei bagliori della sera infido luogo di antichi agguati, fa risaltare sopra l'ombra sfrangiata di Sicilia la montagna di fuoco, l'Etna, eterna madre che creò il tempo.