LU CCIPPITINNAU
Il padre di
Leandro emigrò dopo la fine della seconda grande guerra in
cerca di fortuna, non riuscendo, con il solo lavoro della
terra, a soddisfare i bisogni della numerosa famiglia. Anche
se a malincuore lasciò il paese d’origine. Caricò le
masserizie più essenziali sul carro del cugino Antonio e si
fece accompagnare attraverso le tortuose stradine fino a
valle dove passava la ferrovia. Alla stazione fece il
biglietto, riuscendo anche ad avere un piccolo sconto per i
bambini più piccoli, e quando il treno in arrivo si fermò
sbuffando, si fece aiutare a trasferire i suoi bagagli dal
carro del cugino Antonio al carro delle ferrovie, poi salutò
il cugino e gli occasionali amici che lo avevano aiutato nel
trasbordo e salì sul vagone di terza classe insieme
alla sua famiglia, sistemandosi come meglio poteva per il
lungo viaggio verso il nord. La moglie aveva preparato una
grande cesta piena di ogni genere di mangiare,
sovrabbondando, nel caso il treno dovesse fare ritardo oltre
le ventiquattrore previste. Aveva portato anche qualche
cuscino e delle tovaglie i faccia, grandi e
piccole. Il viaggio era lungo e se qualcuno dei bambini si
sentiva male e aveva bisogno di rovesciare, le
tovaglie erano a portata di mano. Da buona donna e madre di
famiglia all’antica aveva previsto tutto, ma anche lei
partiva col magone nel cuore e quando il treno, fischiando,
si mosse, una maschera di tristezza coprì il suo volto così
come quello del marito che aveva rivolto un ultimo sguardo
verso la montagna che nascondeva il loro paese. Il velo di
tristezza non durò molto. Non volevano che i loro figli si
accorgessero di questa loro debolezza, e quando il treno
uscì dalla lunga galleria solo Leandro, il maggiore dei
cinque figli, notò i genitori che riponevano nella tasca il
fazzoletto che era servito loro per soffiarsi il naso. Notò
anche che avevano gli occhi lucidi, forse per colpa del fumo
della locomotiva, che nella galleria non sfogava
verso l’aria aperta. Molti anni dopo Leandro avrebbe capito
che la colpa non era del fumo della locomotiva.
Il viaggio
mise a dura prova la pazienza e la resistenza dei bambini,
ma da piccoli uomini figli di una terra dura non lo diedero
a vedere per non mettere a disagio i genitori. I bambini
trovavano distrazione guardando fuori dai finestrini i
paesaggi che variavano man mano che dal sud si saliva verso
il nord, sobbalzavano al fischio della sirena del treno a
carbone, guardavano gli sbuffi di bianco vapore che usciva
dalla ciminiera della locomotiva, intervallati dal
fumo nero della combustione del coke. Piaceva loro
stare affacciati e sentire il vento che scompigliava i
capelli e non si accorgevano che lo stesso fumo impregnava i
loro vestiti e faceva diventare scure le loro facce. Quando
arrivarono alla stazione di P.N. scesero dal treno
guardandosi intorno smarriti e frastornati dal quel gran via
vai di persone che sembravano avere tutti una fretta del
diavolo. Scaricarono con molta fatica i loro oggetti e
rimasero fermi sul marciapiedi in attesa di chissà che
cosa. Spauriti perché la stazione si stava svuotando e loro
ancora non vedevano segno di volto amico, che, però, alla
fine comparve. Ero un cugino del cugino Antonio che era
stato avvisato per tempo, per via posta, e adesso era
a loro disposizione con il suo calesse. Sapeva già tutto
quello che doveva fare ed aveva già fatto tutto quanto
doveva. Facendo diversi viaggi portarono fuori dalla
stazione i pacchi legati con lo spago a croce, le valige di
cartone, anch’esse legate con lo spago, qualcuna con qualche
cinghia che in seguito serviva per i pantaloni. Caricato
tutto sul calesse, tenendosi stretti per non cadere si
avviarono verso una delle tante periferie della grande
città, dove il cugino del cugino Antonio aveva affittato per
loro una piccola casetta, non nuova, ma decorosa e
soddisfacente per la famigliola del padre di Leandro. Il
nuovo cugino, dopo averli aiutati a sistemarsi, li lasciò
con l’impegno che sarebbe ritornato il lunedì per cominciare
il giro della città in cerca di un lavoro per il suo nuovo
cugino che di cognome faceva Karamanlio, cognome
originario di un antenato che si chiamava Karamanlis.
Era sabato,
quel giorno, per cui avevano abbastanza tempo per sistemare
le loro cose, darsi una sciacquata, cambiarsi d’abito e
riposare abbastanza per riprendersi dalla stanchezza del
lungo viaggio. Sembrava di essere in un altro mondo. Ma la
famigliola decise di non dimenticarsi del mondo originario,
il paese dell’estremo sud della penisola, da cui erano
partiti quasi due giorni prima, dopo lacerante e sofferta
decisione. Furono fortunati. Il nuovo cugino Andrea, così si
chiamava, in breve tempo riuscì a sistemare il nuovo
arrivato, trovandogli un posto di lavoro presso una grande
industria, dove avevano bisogno di operai che avevano
bisogno, assegnando loro lavori non molto graditi ai
più. I reparti fonderia erano pieni di terroni
bisognosi, i quali si adattavano senza reticenze pur
di portare a casa un po’ di salario per i bisogni della
famiglia. Il signor Karamanlio si adattò a fare
qualsiasi tipo di lavoro, anche se i suoi sentimenti
ritornavano indietro nel tempo, ai suoi antenati molto più
civili e ricchi di cultura ed anche di altro. Ma, si sa, i
tempi cambiano e bisogna adattarsi. Lo spirito di
adattamento traeva forza dalla consapevolezza che il
sacrificio personale serviva a migliorare le condizioni di
tutta la famiglia e soprattutto dava la possibilità ai figli
di ambientarsi in quella nuova realtà, frequentando le
scuole per un futuro diverso e più appagante. Anche la
moglie faceva la sua parte. Oltre ad occuparsi della cura
della famiglia, non lasciava perdere l’occasione di svolgere
con dignità altri lavoretti presso famiglie più benestanti e
portare a casa qualche soldino, arrotondando il salario del
marito. Con i loro sacrifici mandarono a scuola tutti i
figli, non trascurando di inculcare loro la cultura delle
loro radici. Per orgoglio personale non volevano che
facessero un passaggio verso altre culture, dimenticando le
loro origini. Pertanto tra di loro continuarono a parlare
con il linguaggio del loro originario paese, trasmettendo ai
figli anche la cultura degli antenati, raccontando loro gli
usi ed i costumi antichi.
Leandro, il più grande, si distinse
sempre nella carriera scolastica e, finito il periodo della
scuola, durante le vacanze, per premio veniva mandato dai
nonni al paese d’origine, dove riallacciava le amicizie
dell’infanzia. Il tempo passava, Leandro fece una bella
carriera universitaria, laureandosi con il massimo dei voti
discutendo una tesi incentrata sugli usi, costumi,
linguaggio e cultura, ma soprattutto rischio di
affievolimento ed estinzione degli stessi, di un popolo
discendente da un’antica civiltà pre-romanica. Il giovane
trovò anche sistemazione lavorativa pressa la stessa grande
industria dove lavorava ancora il padre, però con compiti e
mansioni molto diverse, inserendosi a pieno titolo nella
ristretta cerchia dei dirigenti. I genitori intanto si
facevano anziani e volevano che si sistemasse anche come
famiglia, anche lui lo voleva e siccome ricordava un
proverbio che sentiva ripetere spesso e cioè che “ mogli e
buoi vanno presi ai paesi tuoi”, cominciava a farsi pensiero
di tornare al paese d’origine, anche perché da un profondo
angolino della sua memoria ogni tanto riaffiorava la visione
del treno che usciva dalla galleria e lui rivedeva i
genitori con il fazzoletto in mano e gli occhi lucidi.
Visione che non era riuscito a cancellare e che, nel tempo,
gli aveva fatto capire quanto erano forti i legami della sua
famiglia con la terra d’origine, e quanto forti erano i
sentimenti che legavano i genitori tra di loro. Decise che
la sua futura sposa doveva essere del suo paese d’origine.
Potendosi permettere di viaggiare in aereo, che atterrava
nell’aeroporto del capoluogo, ritornava spesso al piccolo
paese in quella vallata, nascosta dalla cima della montagna,
dai nonni, ormai molto anziani, ma ancora vigili ed
autosufficienti. Confidando al nonno le sue intenzioni, notò
un impercettibile sorriso ed un luccichio negli occhi del
vecchio, che accettò con infinita soddisfazione la
confidenza del nipote e gli promise di aiutarlo secondo
l’uso e le tradizioni che ancora erano radicate nel
comportamento dei residenti.
“Domenica, gli disse il nonno, vai
alla messa delle undici ed all’uscita comportati come tutti
gli altri tuoi coetanei, stai attento e osserva”. Non
disse altro. Leandro fece come gli disse il nonno. Al “Deo
gratias, ite missa est” pronunciato dal celebrante, che
significava la fine della messa, si mescolò agli altri
giovanotti che avevano formato due file davanti alla porta
della chiesa, in attesa dell’uscita dei fedeli tra i quali
c’erano anche belle ragazze, vestite con i costumi
tradizionali delle feste, che , a capo chino e con gli occhi
fissi per terra, si avviavano per tornare alle loro case
scortate dalle sorelle maggiori già maritate.
Qualcuna ogni tanto si azzardava
ad alzare gli occhi per una rapida e significativa occhiata
a qualche giovane della fila. Un’occhiata e basta. Anche
Leandro fu oggetto di una occhiata. Lo sguardo che
incrociò il suo fu come una scossa elettrica. Il
messaggio trasmesso era chiaro, molto chiaro. Leandro fissò
per un solo attimo gli occhi di quella giovane donna, la cui
immagine gli si stampò nella memoria, ricordandogli antiche
bellezze olimpiche. E i battiti del suo cuore da quel
momento cominciarono a viaggiare con un ritmo diverso.
Ritornò dal nonno per raccontargli tutto, soprattutto le
nuove ed improvvise sensazioni che provava.
“Calmati, disse il nonno,
quello sguardo vuol dire tutto e niente, nello stesso tempo.
Bisogna avere pazienza e rispettare i tempi e gli usi della
tradizione. Dunque, tradizione vuole che un giovane, per
quanto istruito, laureato e ben sistemato che sia, deve
anche dimostrare di sapersi adattare a tutto, anche al
lavoro manuale, che si svolge nell’orto, nei campi e nei
boschi. Quindi sabato andremo nell’orto e comincerai ad
estirpare le erbacce, così le tue mani assumeranno il colore
verde di chi lavora negli orti. Non le laverai, la domenica
parteciperai al solito rituale e se lo sguardo della ragazza
si alzerà di nuovo su di te, tu farai finta di aggiustarti i
capelli, in modo che lei potrà notare il colore verde delle
tue mani. Non noterai alcun cambiamento di espressione sul
suo volto. Le vere donne non lasciano trasparire i propri
sentimenti fin quando non sono sicure di non sbagliare. Fai
come ti ho detto”.
Così fece Leandro, seguendo il
consiglio del nonno. Lo sguardo ci fu, rapido, improvviso,
profondo e basta. Fece appena in tempo ad lisciarsi i
capelli. Di nuovo dal nonno per sapere del seguito.
“Questa volta le mani dovranno
essere di colore scuro, disse il nonno, per dimostrare che
hai lavorato nei campi e nel bosco, e lavorerai veramente.
Abbiamo un tratturo boscoso da ripulire e questa è una buona
occasione, anche per l’aiuto che mi darai. Se seguirai i
miei consigli farai anche i calli senza papule sierose e
sanguinolente”. Lavorarono, nonno e nipote, per una
settimana, sistemando il piccolo possedimento. Le mani
divennero effettivamente dure e callose e di quel colore
“sporco”, proprio dei lavoratori della terra. La domenica
arrivò in fretta e Leandro fu di nuovo al suo posto nella
fila in attesa del passaggio della giovane. Questa volta lo
sguardo fu più lungo ed intenso, ma niente di più, anche se
Leandro, nel suo ottimismo, ebbe l’impressione di cogliere
un leggero cambiamento espressivo. Fu solo un’impressione.
Però in cuor suo maturava sempre più la consapevole
decisione che quella giovane donna sarebbe stata la compagna
della sua vita, la madre dei suoi figli. Il nonno fu messo
al corrente degli ultimi sviluppi.
“Calmati, non volare alto, non
sognare ad occhi aperti, disse il nonno, il tempo è
ancora lungo. La giovane è veramente molto bella, è anche
molto colta, e appartiene ad una famiglia illustre ed
onorata che ancora rispetta le tradizioni, che dobbiamo
rispettare anche noi, passo per passo, rispettando i modi ed
i tempi della nostra antica cultura e delle nostre usanze.
Non possiamo presentarci in casa loro così, prima bisogna
presentare lu ccippitinnau e poi
dobbiamo avere pazienza ed aspettare. Tu sai cos’è lu
ccippitinnau ?
Leandro scavò nei meandri della sua
memoria, ritornando bambino e ricordò, seppur vagamente,
quanto i suoi genitori raccontavano nelle lunghe serate,
quando ancora abitavano in quella piccola casetta di quella
grande città del nord. I loro racconti riguardavano sempre
periodi della loro infanzia al paese natio, tenendo viva
l’attenzione dei figli. Pian piano il ricordo del racconto
dello ccippitinnau emerse nella sua memoria,
ricordando anche di aver accennato a questa tradizione in un
passaggio della sua tesi di laurea. Quindi l’ansia di
concludere scavalcando le tradizioni fu messa da parte,
attendendo all’imperativo del rispetto di questa tradizione.
Sempre seguendo i consigli del saggio nonno ed anche dei
discreti interventi della nonna attese i tempi che
seguirono. Per un paio di domeniche non si fece vedere
all’uscita della messa delle undici, preferendo partecipare
a quella delle otto insieme ai nonni, anche per farsi vedere
dai genitori della giovane e far capire loro da quale
famiglia discendeva.
Fu la nonna, al momento opportuno, a
suggerire al nipote che il tempo dello ccippitinnau
era maturo e si offrì di sceglierlo lei, in quanto donna, e
sapeva bene quale poteva essere quello giusto per la
presentazione. Tutte le procedure furono eseguite come da
tradizione, lu ccippitinnau fu inviato, ritirato e
trattenuto dalla famiglia della giovane. In seguito Leandro
fu accolto in casa per il periodo del fidanzamento, i tempi
furono rispettati secondo tradizione, fino alle celebrazione
del matrimonio con la partecipazione di tutto il
parentato e degli amici, anche quelli venuti dal nord.
Leandro ed Elenia formarono la loro famiglia e vissero
felici e contenti con i loro numerosi figli, nella grande
città del nord, sempre nel rispetto della tradizione e
cultura dei loro antenati.
NOTA:
Finisce qui la storia di Leandro,
cari amici fussatoti, non so se vi è piaciuta perché l’ ho
conclusa senza darvi la possibilità di capire cos’è lu
ccippitinnau ed il suo uso secondo tradizione. Ma non vi
voglio lasciare scontenti e vi spiego di che si tratta.
La parola stessa trae origine da
“ceppo” o, come diciamo noi fussatoti, “ccippu” che può
avere diverse interpretazioni. Letteralmente il ceppo
identifica la parte inferiore del tronco dell’albero dalla
quale si diramano le radici, oppure significa blocco di
legno da ardere, oppure U ccippu usato dai
bbucceri per tagliare la carne con l’osso. In senso
figurato si intende il capostipite di una famiglia.
Ccippitinnau era un termine
usato nel linguaggio dell’area Grecanica Ellenofona della
nostra provincia, nella cui tradizione questo ceppo veniva
usato semicarbonizzato, ma non bruciato, come ambasciatore
presso la famiglia di una ragazza in età da marito. Il
pretendente lo posizionava di notte davanti alla porta della
casa della ragazza e per un paio di giorni faceva finta di
niente, rimanendo in attesa. Se il ceppo veniva
portato dentro la casa significava che la risposta era
positiva, che il giovane era di gradimento alla famiglia e
poteva presentarsi personalmente per il fidanzamento. Se,
invece, rimaneva fuori significava che la risposta
era negativa e il ceppo doveva essere ritirato dagli
amici del giovane, non rimanendo, però, preclusa la
possibilità che la faccenda poteva essere ripresa e portata
a conclusione positivamente con l’intervento degli anziani
del paese.
Tutto qui
Come sempre un mio caro saluti per
tutti voi.
Francesco P. |