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TRA LEGGENDA E CRONACAdi NINO PUGLIESE II PARTEUSI E COSTUMI Secolari e propri della civiltà agricola, gli usi e i costumi del popolo fossatese, così vari e talmente numerosi da rendere sempre più arduo qualsiasi tentativo di un’esauriente rassegna, pure nel XIX secolo non si discostavano sostanzialmente dalle tipiche tradizioni popolari di altre località, non solo calabre. E con la preoccupazione che tale patrimonio di tradizioni potesse scomparire nel breve volgere di qualche generazione, spingeva già da allora taluno a raccogliere quanto era possibile conoscere dalla narrazione dei più vecchi. Al resto provvedeva mirabilmente la fervida fantasia popolare che era portata a ravvisare in particolari episodi della vita quotidiana significati reconditi e presagi straordinari. Verso la fine dell’800, talaltri ancora, per appassionato amore alla terra feconda, stimolavano allo studio della vita e delle tradizioni della gente rurale , ad evitare d’andare del tutto perduto il valore di civiltà e saggezza insito nella ricca cultura contadina, tuttora facilmente riscontrabile nell’idioma, nelle costumamnze, nei pregiudizi, nei canti, nelle tradizioni, nelle favole, e, ancor più, nei tesori nascosti del popolo, unico e tenace custode della storia locale dei secoli trascorsi. Del resto, solo con l’ausilio dei più anziani del paese, diveniva agevole fare emergere compiutamente, dal vasto campo degli eventi della vita quotidiana, riti, costumanze e manifestazioni in cui l’anima popolare metteva a nudo la sua fervida fantasia, la ricchezza e la genuinità dei suoi sentimenti. IL CICLO DELLA VITA Per preminente convinzione, sin dai primordi la vita umana appariva dominata e retta da credenze e da pratiche particolari fin dal concepimento, per tutto l’arco della vita, dalla nascita alla morte. LA NASCITA – Nel particolare, la procreazione era un evento di grande importanza sociale e sacrale. Col tempo, nel territorio fossatese, il lieto evento della nascita di una creatura era sicuramente divenuto uno dei momenti più delicati e gentili dell’intera esistenza della famiglia. Erano tempi in cui i bambini nascevano "si voli u Signuri" e ai genitori incombeva l’obbligo morale e materiale di allevarli e di educarli. All’approssimarsi della nascita tormentava il desiderio di individuare il sesso del nascituro in quanto che il maschio rappresentava la continuità della "razza", mentre la femmina l’abbandono della famiglia. Erano empiriche previsioni: la pancia alta e aguzza per il maschio, bassa e rotonda per la femmina. La donna incinta doveva riguardarsi, niente lavoro duro, cadute, spaventi e cacciarsi tutti " i ssili e disii" senza causare danno al nascituro. Le voglie attecchite erano del latte quelle biancastre, del maiale quelle nere e pelose, del caffè le marroni, del vino le rossicce. Intanto, nell’angolo meglio riparato veniva allestita la "naca", spesso sacco con pelle di pecora nel cavo avvolgente. Compito delicato era la scelta del compare e della comare, dal lato spirituale considerati come parenti disposti a sostituire i genitori in caso di necessità. Pure pronti il corredino preparato solo dalla madre durante la gravidanza: camicina senza nodi e fiocchi, cuffie, "pomizzi", fasce, e, a protezione di ogni male, il sacchettino portafortuna, a parte preparato dalla comare. Allora le donne "si sgravavano" in casa, di solito con parti facili, con l’ausilio della "mammina" ostetrica tuttofare, sempre prodiga di consigli e vigile sul buon andamento della gravidanza.. Alle prime avvisaglie tutto veniva preparato con precisione e sicurezza, l’acqua sterilizzata sul fuoco, lavamani e "bacili" smaltati allineati, "stagnati e caddareddi" ripieni d’acqua, panni morbidi, "pannizzi", le fasce per il neonato e altre per la madre. Al lieto evento assistevano, oltre la levatrice, la madre della partoriente e qualche altra donna esperta, in un clima di solidarietà, serenità e coraggio. A parto avvenuto si ringraziavano tutti i santi e pure S.Anna con candela accesa. Seguiva subito un delicato lavaggio completo del corpo, mentre quello della testa e il taglio delle unghie andavano fatti con metodo in un certo modo e coi dovuti scongiuri per evitare al neonato di diventare cretino oppure ladro. Subito dopo, levatrice e comare, fasciato con cautela il petto, infilavano la creatura nei vari capi del corredino preparato, senza fare nodi e fiocchi, presagi di intralci, contrarietà e inghippi. In difesa di ogni insidia, ma soprattutto dell’invidia, alla fine la comare cuciva sulla camiciola il sacchettino benedetto con altri amuleti. La notizia della nascita si spargeva subito tra parenti e amici che, per congratularsi, andavano in visita alla perpetua con doni rurali o acquistati. Talvolta la nascita di un maschio veniva salutata con "scupittati" e grande spreco di "capicoddi"; meno rumorosa e avara quella della femmina. L’emozione toccava il cielo con la prima poppata, concreto avvio di nuova vita piena di speranze, salute, armonia. Sollecitatane la calata con "taglierini" in brodo di gallina o con zuppa di fagioli paesani, il latte della madre era l’unico alimento indispensabile per far crescere bene il neonato e, in mancanza, si ricorreva ad un’altra mamma capace e disposta all’allattamento, oltre a quello di un proprio figlio, per amore e per solidarietà. Per calmare il pianto si preparava la "papazzedda" un cencio stralavato ripieno di zucchero o miele, ripiegato e legato a mo’ di ciuccetto. Si entrava poi nella fase dello svezzamento prima con la riduzione delle poppate e dopo "pascendo" in vario modo il bambino con dosi semiliquide di panbollito condito con olio d’oliva. Il metodo più seguito restava però quello della masticazione delle combinazioni alimentari da parte della madre per passarle poi direttamente bocca a bocca al figlio, in modo semplice e affettuoso. Gli orecchini d’oro erano in difesa della vista e per le femmine costituivano ornamento; a sinistra per il maschio invece futuro rango sociale. Dal modo e dal tempo della nascita, le "strologhe" traevano presagi e profezie, etichettando come:
fortunati o nati con la camicia i venuti alla luce avvolti nella placenta;
il giorno dell’Addolorata con pianti, malinconia, tristezza; IL FIDANZAMENTO Dal lato fisico, nettamente in piena generale maturità, una fossatese diciottenne sicuramente era già sotto l’occhio di un pretendente impacciato, inesperto, analfabeta. In un Fossato poi dalla società chiusa e poco incline a frequentazioni intrarelazionali , i giovani, nei loro naturali preliminari d’innamoramento, dovevano necessariamente adattare i loro comportamenti entro la logica di un certo sistema dalle regole e modalità precise. Tappe d’obbligo: innamoramento, fidanzamento, matrimonio. Si passava dall’innamoramento spontaneo per fortuita superficiale conoscenza durante i grandi lavori a reciproco scambio ( mietitura – vendemmia – raccolta olive ) alle eloquenti occhiate lungo il tragitto casa-chiesa, ai "passi" , in chiesa, escluso quindi qualsiasi pubblico approccio colloquiale e dichiarativo , oppure alla festa o alla fiera, nella confusione ed in promiscuità, per mano significativamente sfiorate o altro più ardito tangibile segnale. Se da tanto la scintilla d’amore ardeva anima e cuore , il giovane innamorato, (non esclusa segreta "mbasciata" ), per costume, portava la serenata sotto le finestre dell’amata con canzoni scelte apposta per farle comprendere il corteggiamento, e, se per caso, in una delle successive serenate, la ragazza, o con un fiore o con un lume o con la finestra aperta, si mostrava accondiscendente, il più era fatto. Non sempre però le nuove coppie erano frutto di amori sbocciati per caso ( in verità molto pochi! ), ma piuttosto di calcoli terreni contenuti essenzialmente in salute e beni di famiglia, e, perciò, non per nulla, il "giovanotto" doveva essere sano, forte, serio e possibilmente benestante, come, del resto, la "giovinetta" doveva essere sana, illibata, casalinga, capace in cucina, con attitudini alla pulizia, al cucito, al ricamo, ai ferri, all’uncinetto, al fuso, al telaio, preferibilmente con terreni e case. Al tempo giusto, cioè quando tali qualità erano presenti e salde, in particolare per le coppie all’oscuro di concordata paterna "promessa" sin dal battesimo, era la famiglia di lei che, con sollecitata intercessione di parenti seri o di amici fidati, in familiari incontri informali abilmente pilotati, doveva rompere gli indugi con discrezione e dare agli ignari giovani il dovuto benestare d’approfondimento della conoscenza, quale ultimo atto di fidanzamento…premeditato. Nella politica matrimoniale locale però, a causa delle note difficoltà di rapporti, della totale assenza d’incontri organizzati, nonché della naturale diffidenza, per preferenza, sicurezza e scelta, su tutte meglio posizionata era la paesana metodica del fidanzamento "portato", specie se a "combinarlo" erano persone della proba coscienza e dalla specchiata moralità, tanto da rappresentare il 95% dei casi fra paesani. Dal lato formale imponeva la prima mossa al pretendente e in generale, per consumata trafila, seguiva poi con proposta d’"intenzione", informazioni referenziali sommarie, sino al primo incontro ; dopo per consuetudine tutto passava in conduzione familiare riservata. Seppur pratica logorante, dispendiosa e imprevedibile, nelle poche ma difficili situazioni di "zitamenti" intricati, esisteva inoltre e dominava la figura dell’"intramezzatore", mediatore o ruffiano forestiero a compenso, il quale doveva fare il possibile e l’impossibile per mettere in contatto e in accordo i giovani ( o meno ) nubendi. A Fossato peraltro non v’erano mediatori ufficiali in nessun affare, né tantomeno "ruffiani" di mestiere, eccezione fatta per la polivalente, immancabile ed invadente, "trapulara" dal muso dolce, ma di poco credito. Superate positivamente le fasi preliminari, fatta, ove occorreva, la romantica serenata, ottenuto formale nullaosta alle prove successive, l’aspirante fidanzato, "promosso" e accettato, poteva, in un giorno convenuto, coi propri genitori, recarsi a casa dell’agognata per la sacramentale "spiegazione in famiglia", per l’ufficialità, per l’assenso ai sorvegliati incontri bisettimanali; dopocena, di solito il giovedì e la domenica, sempre e saldamente con rispetto ed educazione sino al giorno del matrimonio. Nelle more, oltre alle normali frequentazioni e ai reciproci scambi di regali, i promessi, in completo accordo, avviavano in concreto i programmi per la loro futura indipendente sistemazione, e, dato che nella maggioranza dei casi era la "donna" che portava in dote la casa o il suolo su cui costruirla, il fidanzato, in concorso col futuro suocero, si impegnava, se vecchia, a restaurarla o altrimenti a costruirla dalle fondamenta. Inoltre sceglievano in sintonia il "mobilio" e i particolari d’arredo posti a carico ripartito , ad eccezione della camera da letto che era di spettanza dello "zito" . La "zita", nel contempo, si adoperava a completare il corredo a dozzina, accumulato anno dopo anno, oltre a coperte, copertoni damascati, coltre in cotone, tele, da conservare per lunga durata in due capienti casse di buon legno. Altre tappe intermedie di questo disincantato periodo, ampiamente vissuto in serena reciproca buonafede, erano la "signatura da zita" con anello d’oro e la restituzione della visita confermativa in casa dello sposo con rituali doni, entrambe significative e importanti per la congiunta difesa con ogni mezzo dall’invidia altrui e da qualsiasi altro influsso malefico. IL MATRIMONIO Da un certo momento in poi, il fidanzamento di una volta poteva in definitiva considerarsi, per molti aspetti, come un vero e proprio contratto fatto sulla parola, con patti e condizioni di difficile rottura o rescissione. Alla costatazione che, nei loro incontri fatti in reciproca "fede", i giovani promessi avevano radicato i loro sentimenti ( ed anche i pericoli ), i loro genitori in alleanza, con molto tatto, avviavano le trattative finali per il futuro matrimonio, nel rispetto del rituale locale più seguito, mantenendo in tale modo l’essenza culturale di un fatto sociale molto importante per la comunità delle famiglie fossatesi, dunque nel segno del "si è fatto sempre così" e dell’intramontabile "donne e buoi dei paesi tuoi". In queste circostanze, le due famiglie si riunivano per accordarsi su quello che ognuna dava in dote ai propri figli in coerenza con l’impegno morale del fidanzamento anche sotto l’aspetto economico e sociale. Era un momento particolarmente delicato e difficile in quanto per un nonnulla poteva saltare il matrimonio per mancato accordo, con tutte le immaginabili negative conseguenze. Materia degli "aggiusti": corredo, materassi, coperte, damaschi, lenzuola, tele di lino, orti, terreni, casa, mobili, arredi, lasciti. Per le famiglie modeste il compito diveniva più facile, se il fidanzato era già riuscito a procurarsi i "trispiti" e la fidanzata ad aver pronti materassi e lenzuola, paghi soltanto del "cielo" in una stanza disadorna sotto vecchie tegole, del calpestio sopra la grama terra e della lauta dote di "agghi e cipuddi ntrizzati", sostitutivi dell’oro degli innamorati. Una settimana prima del matrimonio, in casa della fidanzata, si faceva la mostra del corredo, visitata con espressione di meraviglia da amici e parenti, per essere poi trasferita nella casa degli sposi mediante amichevole trasporto in testa da un lungo stuolo di donne in prevalenza "schette", sotto gli occhi ammirati della gente. Erano i buoni vicini a preparare e a dispensare i "cosi duci" per chi poi andava a visitare la camera e la casa degli sposi. Di solito gli anelli venivano comprati dallo sposo, il quale in tempi precedenti pagava pure il vestito della sposa, senza doverlo vedere prima dell’incontro in chiesa. Tutte le spese per il pranzo, organizzato in casa, in locali propri o di parenti, venivano divise in due parti uguali senza tenere conto del maggior numero di invitati dell’una o dell’altra famiglia. Speciale momento emblematico di definitiva accettazione nella famiglia era quello in cui la futura suocera apponeva l’oro: la goliera e gli orecchini. Il giorno del matrimonio la sposa vestiva di bianco dal simbolico valore della purezza e della verginità che non erano mai messe in discussione, sia per la buona guardia fatta dalle madri, sia per le ferme doti di carattere e di moralità delle giovani future ottime madri e mogli esemplari fossatesi. In chiesa si andava a piedi con il seguito di tanti amici e parenti ed un buon numero di "figghioli", i quali aspettavano il lancio di qualche pugno di confetti per raccoglierli, azzuffandosi nel tentativo di raccattarli da terra, a volte confusi tra polvere e pietrisco. Di solito la suocera non partecipava alla cerimonia in chiesa ed aspettava la coppia in casa con in mano un "rametto d’olivo", simbolo di pace, prosperità e comprensione. Gli abiti degli invitati erano quelli già usati in precedenti occasioni e all’occorrenza si allargavano o si ricucivano in casa in modo tale da poter conferire alla cerimonia il giusto valore senza sfarzi particolari, e, perciò, veniva seguita con curiosità e devozione. Al rientro dalla chiesa baci, abbracci, felicitazioni, col seguito del pranzo organizzato in casa, nell’abbondanza e nella prelibatezze, molto apprezzate e appetitose, gustosamente consumate interamente. Immancabili durante il pranzo i canti improvvisati al suono delle ciaramelle ( o dell’organetto o della chitarra). Alla conclusione invece si apriva l’usuale "tarantella della sposa", lunga ed estenuante, nel corso della quale gli invitati partecipanti al ballo solevano porgere direttamente alla sposa la busta – regalo in denaro, quale concreto segno di partecipazione e di solidarietà. Seppur estenuante, questo ballo non solo era valido a far risaltare la resistenza della novella sposa ,ma soprattutto ad esaltare le indiscusse sue doti di dolcezza ed esemplarità muliebri. A festa finita, dato che allora tutto "si consumava" nel nido della propria casa, molto spesso gli amici buontemponi, quando ritenevano che gli sposini erano già in camera da letto, dopo frastuoni assordanti, intonavano sotto le finestre canzoni adatte a tenerli svegli a lungo. Degni di notazione i matrimoni riparatori che passavano sotto completo silenzio, senza feste, senza riti, atti solo ad alimentare i pettegolezzi, ed anche quelli dei "cattivi", vedovi prigionieri di regole senza troppi sbocchi, col pericolo di pubblico dileggio. Il ratto seguiva regole consuetudinarie una volta tacitate le azioni legali d’ufficio o private. LA MORTE Al mistero della morte si accompagnavano numerose credenze in combinazione con superstizioni intramontate, sin dall’antichità; alcuni straordinari eventi premonitori, segni inequivocabili di malaugurio, presagivano in anticipo la presenza della morte. Una civetta che "piulava" nelle vicinanze della casa, con lo sguardo ad essa rivolto, anticipava che qualcuno doveva scomparire entro poco tempo. Una gallina"mbasunata", rivolta verso la montagna, era considerata portatrice di disgrazie, se, all’improvviso, a brevi intervalli, nell’imitare il gallo, emetteva invece un soffocato sfiatato canto rantolante. Veniva subito uccisa e fatta scomparire. Altro segnale funesto era il grido lungo e lamentevole del cane, ad ululare come il lupo. L’agonia di un moribondo era annunziata ai paesani dai mesti lenti rintocchi della campana, a cadenza intervallata, 13 per un uomo, 12 per una donna, a distesa per un bambino, angioletto verso il Paradiso. Appena spento, il morto veniva subito pulito e vestito con l’abito più buono; nubili e bambini venivano invece vestiti di bianco e ornati di fiori e lasciati a piedi nudi. Nelle mani degli adulti si poneva una corona del rosario, sul petto un crocifisso, sul letto petali di fiori, la testa poggiata su un cuscino ripieno di foglie d’arancio. Al momento preciso della morte, i familiari aprivano una finestra o la porta della stanza in cui il morto era spirato per favorirne il transito verso il cielo, mentre immediati forti pianti funebri esplodevano tra tutti i familiari con lamentazioni strazianti ad alte grida.La moglie, all’arrivo della morte, col "talorno", pianto forte, a singulti, rievocava le virtù del defunto; graffi al viso e capelli sciolti e scarmigliati evidenziavano l’intensità di un vero dolore, mentre parenti ed amici a turno si scioglievano in pianti di partecipato dolore. Per nenie e filastrocche rituali, le mestieranti vi accudivano puntualmente con ripetitive biascicate lunghe tiritere, con abile insistenza revocatoria. Anche i visitatori, dopo il mesto saluto al morto, tessevano, tra loro, gli elogi delle sue domestiche virtù e delle sue impareggiabili capacità nei lavori agricoli. La salma posta sul letto-catafalco con grosse candele accese ai lati, veniva vegliata per 24 ore, per essere poi portata in chiesa, in corteo, per le esequie. Per lontana memoria, in passato, vigeva anche a Fossato l’usanza di trasportare i morti coperti soltanto da semplici lenzuoli distesi sopra una portantina sorretta a spalla. Avvolto in misera tela, a cerimonia finita, da terra davanti all’altare, il cadavere veniva poi senza intralci calato attraverso la stretta botola a piè campanile e inumato nelle "fosse carnaie" sottostanti il pavimento della chiesa. Tale lungo uso, praticato sin dai secoli precedenti alla legge sui cimiteri del 1804, è andato avanti, con tutti gli inconvenienti per l’igiene, fino al 1877, quando con legge nazionale si imponeva la chiusura delle fosse carnaie e la costituzione dei cimiteri, a Capani per Fossato. Da allora, completate le funzioni in chiesa, il corteo si dirigeva verso il cimitero,e, in prossimità, si scioglieva con la rinnovazione delle condoglianze, dato che al compito della tumulazione in fossa sottoterra partecipavano soltanto i parenti più stretti. La vedova non si muoveva di casa per confezionare i vestiti da lutto e usciva all’ "ottava" per il suffragio in chiesa; gli uomini non si sbarbavano per qualche settimana e vestivano di nero per almeno un anno. Il lutto poteva inoltre essere segnalato con fascia nera al braccio sinistro e con bottone nero all’occhiello. La vedova portava a lungo il lutto, le figlie, a volte, sino al matrimonio per i genitori. Numerose superstizioni sui defunti rendevano il cimitero in particolare come luogo di paura, ora per le fiammelle fatue, ora per imprevedibili cigolii di porte sconnesse, ora per l’incidentale presenza di animali sciolti vaganti in prossimità, a cui inspiegabilmente veniva data un’interpretazione di lugubre significato. ORALITA’ A mantenere sempre saldi i legami della loro cultura locale formatasi dalla confluenza e dall’incontro di poche fonti di parallela omogeneità, via via amalgamatesi, molto aveva contribuito la narrazione orale della loro vita quotidiana, mista ad usi e a tradizioni delle singole stirpi, rievocando temi ora religiosi, ora di vita agreste, ora fiabeschi. Man mano però che queste nuove basi culturali si consolidavano in uniformità e saldezza anche gli ordinamenti colturali delle produzioni assumevano contorni ben precisi e finalizzati, come in effetti si verificava nel primo ‘800 con la scelta delle produzioni a più alto reddito, privilegiando la coltura intensiva dell’olivo alle estensive del grano, orzo, "jurmanu" prevalentemente in consociazione. Gli eventi migratori erano avvenuti in prevalenza attraverso i "campi"; attorno a Montalto, da Roccaforte a Cardato e oltre. Erano stati gruppi sospinti dal bisogno di nuovi insediamenti per avviare proficue coltivazioni in proprio di terreni acquisibili a coltura e di sicura affrancazione. Con queste aspirazioni e con la loro cultura alimentata da incrollabile fede nell’onesto faticoso lavoro, nell’assoluta assenza del potere centrale, ritirati in un cauto dignitoso isolamento, si dedicavano quotidianamente alle loro attività agricole, mentre in libertà potevano esprimersi attraverso l’oralità del loro originario linguaggio. Prevaleva nel quotidiano lo scambio di notizie sull’andamento dell’annata agricola, e, con reciproca sincera cortesia, della situazione delle rispettive famiglie. E così i "fussatoti", purtroppo privi del potere della lingua scritta e spogli di fonti letterarie proprie, potevano, purtuttavia, avvalersi, nelle varie occasioni, principalmente dei tradizionali canali culturali delle loro genie di provenienza, e, quindi, di motti, detti popolari, superstizioni, canti e proverbi, cioè di tutti quei rudimenti che accompagnavano il loro lento e faticoso scorrere delle giornate in campagna. D'altra parte non rinunciavano mai all’allegria, all’arguzia, alla vivacità, all’ironica "palliata", all’antica saggezza, con moderazione e intelligenza, in quella quotidianità ricca di sentimenti, di emozioni, di rispettoso equidistante distacco. Il tempo delle fiabe ( i fatti ) era la sera, soprattutto d’inverno "ndo focularu" oppure attorno alla "conca du bracieri", dove si riunivano al calare del giorno, normalmente nella stanza d’ingresso e talvolta in altra posta sopra la stalla, da dove, attraverso il divaricato solaio in legno, arrivava pure il caldo fiato delle bestie. Il raccontatore ufficiale di ogni famiglia era il nonno che aveva un nutrito repertorio di fatti sempre diversi, fantastici ed avvincenti. Prevalevano le imprese degli eroi del ciclo cavalleresco (Rizieri-Fioravante), le fantasticherie delle metamorfosi dei draghi, orchi, "nadari", "paganeddi", folletti. Il soprannaturale era sullo stesso piano del naturale e non mancavano quindi nei racconti eventi straordinari e insoliti. In parecchi "fatti" dominava la paura anche se la conclusione era lieta. Quei "fatti" pieni di suggestione nel raggiungimento magico di cose incredibili: tesori, galline con pulcini d’oro, restavano in secondo piano per i popolani fossatesi, portati in modo naturale spiccatamente verso la concretezza, nel segno di un equilibrato grossolano buonsenso, sia nelle azioni che nei comportamenti. La narrazione fantastica restava tuttavia un saldo legame che univa le generazioni, e, l’immutabilità dell’introduzione: "C’era una volta…" testimoniava la fedeltà ad una cultura accolta e mantenuta. Strabiliante era la patetica narrazione del vecchio nonno, quando s’addentrava nel mondo delle streghe e dei folletti, ora con toni gravi di voce, ora con gesti eloquenti, talmente ben sintonizzati, da suscitare, oltre al vivo entusiastico interesse per l’inverosimile trama fantastica , anche e soprattutto devota ammirazione e sincero affetto verso un contatto autentico affabulatore, analfabeta suo malgrado. La sua cultura orale inesauribile lo faceva assurgere al rango di gran maestro! I suoi strabilianti racconti assumevano valore educativo e formativo, in quanto contenevano in concreto una morale che trasmetteva specie nei ragazzi valori altamente positivi e talmente fondamentali, da conservare gelosamente nel cuore e nella mente. A fronte però di tanta singolare, corretta e talvolta ingenua "oralità tradizionale", spregiudicatamente si contrapponeva un’altra "alternativa e parallela", artefatta cartacea e culta, tonicamente apocrifa, densa di "furitani" occultismi e settarismi. La "Grotta della Lamia" ( la mitica profetessa impazzita ), in particolare, si prestava a qualsiasi mistificazione mostruosamente coloristica e descrittiva e, di conseguenza, almeno tre differenti versioni, in tutto false e tendenziose, inpegnavano la tematica originaria in collusione col ciarpame delle limature e delle chiose. Ma, fra tante, le più inverosimilmente suggestive, calate nel XIV secolo, indicavano, prima in un paladino e qualche tempo dopo in un templare, per chiari motivi di geomanzia, quali ardimentosi amanti dell’orchessa, entrambi misteriosamente scomparsi di notte all’interno del "lugubre antro" dalle rumorose acque interne e sottostanti, facilmente udibili una volta superato ( si affermava! ) l’imprevisto terzo ingresso intercluso da pantani melmosi e lutulenti. LA MEDICINA DI CAMPAGNA Per usare con sicurezza ed efficacia i prodotti della natura, già largamente sperimentati dagli antenati dal tempo dei tempi, i popolani fossatesi traevano esperienze e seguivano con attenzione le pratiche antiche e quelle nuove con equilibrio e saggezza. Per prevenire i malanni che affliggevano l’organismo ricorrevano soltanto alle medicine fatte in casa, sintesi di pratiche esperienze e di combinazioni tra erbe, frutti, minerali e di scoperte fortuite. D’altronde, prima del sopravvento dello "speziale", nel quotidiano, a solo scopo preventivo, per lunga e immodificata consuetudine, trovavano applicazione, nello spirito di una reciproca solidarietà curativa, alcune significative pratiche guaritorie apparse più a lungo valide e risolutive. Ad esempio, in primavera, col mirato scopo di assicurare la buona salute per lavorare e produrre, tutti si sottoponevano dapprima ad una cura di "rinfresco" depurativo a base di piccole dosi di olio vergine, a cui seguiva una di "rinforzo" alimentare a base di cibi sostanziosi e nutrienti, immancabilmente resi saettanti dal peperoncino e dai vini tosti. E, per non ricorrere alle "amare" cartelle dello speziale, si privilegiava la generale gradita convinzione dell’effetto risolutivo "di pinnuli i cucina", all’insegna del motto "u russu veni du mussu", chiaramente nel segno della genuinità insuperabile e delle prelibatezze delle mirabolanti polpette, dei salami, dei formaggi, delle robuste frittate, dell’incomparabile sapore del pane rozzo integrale, oppure nelle varie combinazioni del duro di Maiorca, orzo, segala "jurmanu", "paniculu". Entusiasmante era la solerzia, non solo delle giovani spose, nella preparazione dell’ "ovu sbattutu" e affogato nel soave denso "vinusantu" ottenuto da sane e integre bianche uve "corniole mpassulute". Dapprima stese all’ombra dei "catoji" su "canizze", scelte, depurate e diraspate, con speciale metodo di premitura e di macerazione, venivano poi mostificate per la conservazione in botticelle anticipatamente preparate, sia per la ritardata fermentazione, sia per una lunga conservazione. Un forte raffreddore si curava con almeno tre giorni a letto, con decotto di "fica e piracottee" bollite a lungo con chiodi di garofano e cannella, con mattoni caldi ai piedi, con ripetuti cambi delle maglie di lana per le abbondanti sudorazioni. Nei casi lievi erano bastevoli alcuni "suffumigi" con le acque calde provenienti dall’infuso di foglie di salice di pantano. Per tosse e catarro si ricorreva pure allo stesso decotto reso però più forte da una più abbondante dose di vino, necessaria per un intontimento rapido e lungo, atto a determinare una sonora russata. Altre volte era sufficiente un mattone ben caldo sul petto che solo così si liberava da tali passeggeri malanni. Le tonsilliti si curavano con spennellature dirette in gola a mezzo di un lungo pezzo di legno alla cui estremità si poneva un batuffolo di cotone imbevuto di una mistura di miele-iodato-acido fenico. I reumatismi venivano trattati con impacchi di olio caldo in cui venivano sciolti i salicilati delle cartelle, con profondi massaggi di olio caldo o con essenza di bergamotto, oppure a volte, con forni caldi, al termine della cottura del pane. Per "stagnare" il sangue delle ferite e delle escoriazioni delle mani, l’urina propria, diretta e abbondante, era il più rapido disinfettante indispensabile; altro rimedio era l’imposizione sull’intero tratto ferito di terra limosa oppure la copertura con l’abbondante peluria delle galle dei giunchi maturi. A tutto superiori erano però le ragnatele delle stalle. I disturbi intestinali venivano eliminati con l’olio vergine, in piccole dosi preso di sera, per almeno una settimana. Non destinabile alla lunga conservazione, un siffatto speciale alimento di nicchia o meglio di "vazzana", veniva prodotto in piccole quantità ad esclusivo uso familiare e conservato in locale fresco e buio, in bottiglie opache ad evitare l’irrancidimento dei residui di fondo non complementare decadenti. Olio vergine, magnificamente straordinario e gustativo, si ricavava da olive integre e sane, ad iniziale giusta maturazione, prodotte da rinnovati bassi ramali di ulivi ubicati quasi al limite di coltura ed esposti ai freddi venti boreali, con religiosa cura raccolte a mano e poste direttamente in panieri fortemente imbottiti contro ammaccature e rotture, avviate alla macinazione entro le prime dodici ore dalla raccolta. La fresca poltiglia delle drupe molite veniva messa in doppio sacco bianco di spesso cotone, subito chiuso "al collo" da robusta "cordina" e appeso per oltre quattro ore. Subito orientato verso l’interno di una "stagnata" dava luogo, per caduta, ad una morbida colatura a freddo di un finale mosto oleoso equivalente ad una vera e propria premura di generose olive, paragonabile ad un nettare prodigioso, limpido, verdognolo, soave, altamente commestibile, selettivamente il migliore. Il vino, a sua volta, veniva, pure utilizzato per:
regolare l’intestino e per eliminare, in combinazione con foglie di carciofo,
i disturbi di fegato; I buongustai votati ad un così pregevole e raro dolce "mandorlato" preferivano quello ottenibile dai rudimenti di questa inconsueta preparazione: Ingredienti per oltre un chilo di prodotto.
Poltiglia secca finemente macinata – Pere e fichi secchi gr. 400; mandolrle
gr. 150; noci gr 50. Ai bambini che di notte digrignavano i denti inconsapevolmente a causa della presenza di vermi intestinali, veniva loro imposta intorno al collo una collana di piccoli agli dall’odore talmente sgradevole da far sparire in fretta tali importuni parassiti. L’aglio veniva pure usato nelle affezioni respiratorie e nella regolazione della pressione alta. Per geloni alle mani e ai piedi venivano praticati inpacchi di agli ben cotti e bagni di acqua bollente per riattivare la circolazione quelle volte che le "papatole" di sottobosco strofinate sulle parti non recavano l’effetto sperato. I calli venivano con facilità eliminati sovrapponendovi una "cciappittola" molto calda imbevuta nell’aceto forte. Acque ritenute efficaci per digestione normale erano quelle della "Castagnara", di "Sgaraglia", di "Iovani", di "San Giovanni" ed altre padronali captate in luoghi disparati con brevi camminamenti a volta di "lamia". Delle erbe spontanee, raccolte per scopi medicinali, le più ricercate erano:la camomilla come calmante; - la malva per la decongestione delle gengive infiammate e i fiori di melograno per restringere quelle gonfie; - il finocchio selvatico per arrestare la cataratta ed anche per l’aumento del latte nelle puerpere; - il finocchio e la lattuga per provocare orinazioni lunghe e complete. A lungo si era pure creduto che analoghi effetti potevano essere assicurati dalle erbe selvatiche che crescevano a tramontana sui vecchi muri. Dallo speziale, tenutario con licenza di un armadio-scaffale di prodotti galenici necessari per la preparazione al mortaio e al bilancino di farmaci ordinati dal medico, si poteva comperare: "linusa", senape, fiore di zolfo, verderame, "sanguette" per salassi ed altro ancora. Il chinino, pillola onnivalente e taumaturgica, faceva la sua comparsa massiccia nell’ultimo quarto dell’ ‘800 con lo scopo di debellare la malaria soprattutto. Il sale ordinariamente veniva venduto per i più svariati usi rurali a grana grossa, poi "stricata" a fino con ovale "cocola su chiana" silicea pietra dura. S’andava consolidando l’unità sabaudia ed arrivavano pure i tabacchi, i valori bollati, i francobolli e le poste, tutto regolamentato con innumerevoli leggi valide per tutti gli "italiani", quindi anche per i fossatesi. Con decreti successivi venivano dettate norme per l’esercizio di arti e mestieri su rilascio di patente-licenza, dietro pagamento di una tassa annuale determinata in base alla classe di appartenenza riferita al comune di residenza. Tra le cinque classi ristrutturate i piccolissimi comuni erano relegati nell’ultima, quindi con tasse minime. Le categorie di arti e mestieri e di commercio, erano invece dieci per tutto il nuovo regno e il sistema impositivo all’inizio appariva giusto anche alle delegate autorità locali, in quanto la tassazione teneva conto , sia della ricchezza produttiva, sia della grandezza del comune. Nella misura del quotidiano, le arti , i mestieri e le attività di commercio, nella realtà produttiva fossatese, orientata ad alta e concentrata destinazione agraria , non davano sicure e valide indicazioni per sviluppi, in prospettiva, remunerativi e vantaggiosi. All’interno delle dieci categorie dall’alto disciplinate, nella miriade delle attività riportate, per Fossato, vi era certezza di regolare presenza di :
negozianti al dettaglio, osti, spacciatori di sale e tabacchi, speziale,
stagnaro, calzolai sarti e sarte, muratori, fabbri, maniscalco, barbiere,
macellai su commissione, nella categoria V; Ai lettori fossatesi Queste noterelle "spuntate" sono frutto e sintesi di velleitarie prove giovanili e di numerosi appunti scarabocchiati, per semplice distrazione, durante taluni periodi noiosi e insignificanti di lunghe estati di guerra. Ho chiara coscienza che si tratta in definitiva di un mucchio di anacronistiche "chiacchiere" che, nella loro temporale profanità, raccolte e accumulate in un modesto compatto mucchio di fogli bislunghi, mi sono curiosamente parse meritevoli di essere ,quantomeno, poste in visione di persone vicine ed amiche, quale onesto innocuo prodotto tutto disutile e scioperato, in parte enucleato nella mia prima giovinezza trascorsa a Fossatello. Di recente, invece, una personale stimolante ricerca in retrospettiva , su taluni particolari aspetti della società e dell’economia di Fossato nel postunitario, mi è stata di buon pretesto per scoprire, in umiltà, inesplorate antiche memorie locali e per rivisitare, con più attenta mira, quell’inesauribile patrimonio di cultura minore racchiuso in usi, costumi e consuetudini della prestigiosa tradizione fossatese, all’attualità ineluttabilmente votata al tramonto, al pari dell’espressivo dialetto. Alla fine è venuto fuori questo primo quaderno-omaggio dedicato a voi, la cui attenzione diviene per me il più ambito premio. stimulos dedit aemula virtus, (lucano) |
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