"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

 





 

PERSONAGGI FOSSATESI

La storia di Fossato è stata scritta nel bene e nel male con il passare degli anni da gente comune, contadini, braccianti, qualche professionista, qualche insegnante comunque attori diretti ed indiretti della evoluzione economica, sociale e culturale del paese stesso. Per quanto la mia memoria ricordi, senza fare torto a nessuno per gli anni che vanno dagli anni 50 agli anni 70 i personaggi famosi secondo un mio modesto giudizio sono:

Ninu Musulinu:

Originario du Ruvulu, zio di Peppi Sivori e di Nicola u Barberi. Lo si vedeva quasi sempre al Bar di 'Ntoni Foti a giocare a tresette con gli amici. La sua camminata dondolante sulle ginocchia lo rendeva unico. La perenne barba incolta, i baffoni spessi e la sigaretta in bocca, lo incontravamo spesso poco prima del paese, a Maranina, sobrio e a passo spedito; al ritorno il passo era strascinato e incerto per il bicchiere.

Era un lontano parente e grande amico dei miei zii materni. La sua figura da bambino mi metteva un po’ di paura, ma una volta cresciuto ho scoperto la sua affabilità e la sua umiltà. Negli ultimi tempi si fermava a chiedere con estrema cortesia e semplicità della mia famiglia, di mia moglie e dei miei figli, anche se non li aveva mai visti e conosciuti.

Un amico mi scrive: <<Io da ragazzino in piazza ho imparato a conoscerlo molto bene. Era una persona buona che amava la compagnia dei giovani. Se poi erano novelli fumatori (come purtroppo ero io) non esitava ad offrire loro qualche sigaretta. Anzi, ricordo che spesso camminava con appresso pacchi di sigarette di diverse marche in modo da far scegliere all'interlocutore quelle preferite. Una cosa che mi è rimasta particolarmente impressa di Nino è quando nel periodo dello sciopero delle sigarette lui era rimasto l'unico a Fossato ad averne ancora e appena arrivato in piazza si avvicinava a quelli che sapeva fumatori e con generosità le distribuiva a tutti.>>

Don Ninu MUsulinu

 

Don Emanuele Belviso (u Guardia):

Tutti noi ricordiamo don Emanuele,  uno dei primi fussatoti ad avere la Vespa, necessaria per il suo lavoro durante gli spostamenti in giro per il paese a controllare che tutto fosse in ordine. Stazionava quasi sempre nel municipio in attesa. Molto spesso da ragazzi nell’odierna Piazza Municipio -   negli anni '60 era azzardato definirla piazza, con il Torrente Jovani che la tagliava in due -  giocavano a pallone, al piridhu e  ai brigghjia. Don Manuele imponente nella sua divisa scura vigilava. Quando qualche pallonata andava a rompere i vetri delle finestre del municipio interveniva autoritario; faceva finta di prendere nota sulla scatola dei cerini e invitava l'incauto colpevole a presentarsi il giorno dopo accompagnato dal genitore a pagare i danni. Alla fine degli anni '50, quando  l’acqua  nelle case era un sogno fantastico tutti dovevano provvedersi alle fontane pubbliche. Don Manuele controllava che nessuno mettesse le cosiddette "suche" per prelevare l'acqua e riempire i fusti, i caddari, i stagnati che immancabilmente popolavano i cortili e i scuverti delle abitazioni. Una volta sorpreso il furbo di turno, minacciava di tagliare a pezzi il tubo di gomma. Credo che in tutta la sua vita a servizio del Comune non abbia mai elevato una contravvenzione o redatto un verbale di infrazione alle leggi, per la sua bontà e benevolenza. A quel tempo di mezzi motorizzati in paese ce n'era ben pochi. I rumori dei motori erano inesistenti e molto facilmente dal Casaluccio, dove abitavo, si sentiva quando u Guardia metteva in moto la vespa per fare il giro delle fontane. I tubi di gomma velocemente sparivano. Credo che in tutta la sua vita a servizio del Comune non abbia mai elevato una sola contravvenzione,  soprattutto per la sua bontà e benevolenza. Ricordo ancora un episodio curioso. Verso la metà degli anni '50 in paese c'è stata un'epidemia di rabbia e bisognava catturare tutti i cani randagi.  Don Manuele con Mastr’Angelo Principato provvedevano a passare  “ cu chhjaccu”, ma soltanto  qualche incauto animale fiaccato dal morbo rimase intrappolato. Una povera bestiola più morta che viva non ce la fece a scappare e venne portata alla fiumara per l’abbattimento. Il luogo deputato era davanti al castagnitu di Finimundu. Si doveva procedere all’eliminazione con un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata. Don Manuele, che rappresentava la legge, si occupava dell’ingrato compito. Molto spesso il malcapitato cane aveva salva la vita per sua mira improbabile. Credo che in tutta la sua vita a servizio del Comune non abbia mai elevato una contravvenzione o redatto un verbale di infrazione alle leggi, per la sua  bontà e benevolenza.

Vedere le foto di famiglia fornite dalla figlia Rina

Don Emanuele Belviso

Mastr'Angelo Principato:

Il vero e proprio factotum comunale. Il suo lavoro principale era svolto presso il cimitero. Era custode, manutentore, seppellittore, disfossatore. Faceva il fontaniere, lo stradino, il messo comunale. Lo si ricorda con il cappello originariamente di colore nero, ma stinto e  grigiastro per la polvere ed il sudore, con lo stemma comunale. Lo portava notte e giorno; in effetti era l'unico oggetto  che lo riconducesse alla sua qualità di dipendente comunale. La sua educazione ed il rispetto che portava a tutti erano encomiabili. Nonostante la sua famiglia fosse molto numerosa aveva adottato altri figli non suoi ed era portato ad esempio a noi ragazzini. Nel suo lavoro era sempre agitato, ma sempre padrone di sé. Nei giri di controllo era sempre in compagnia della guardia municipale,  Don Emanuele. Non vorrei ricordare male, ma mi sembra che si davano del tu. Quando prestava servizio al municipio era sempre in attesa di comandi e disposizioni del "Segretario" Francesco Pellicanò.

Mastr'Angilu Princpato

Il Responsabile dell'Anagrafe:

U maru Sigritario Francesco Pellicanò, era la figura cardine del municipio di Fossato. Era il responsabile dell’anagrafe e dello stato civile. Cultore maniacale della bella calligrafia, nel compilare i vari registri usava la penna come un pennello. Se dalle volte commetteva qualche errore di ortografia, lo faceva con una scrittura in modo impeccabile, quasi un capolavoro. Aveva sei figlie femmine ed era il marito della Signora Strano, la maestra di scuola comunemente chiamata "a Sigritaria" per via del marito. Il Segretario lavorò instancabile fino a metà degli anni '60  insieme a un giovane aiutante,  don Cosimo Foti,  che gli subentrò quando si ritirò in pensione. Gli occhiali rotondi sulla punta del naso, i baffetti corti e il bastone inseparabile compagno nel breve tragitto tra la sua abitazione e la sede municipale. Quando il municipio fu dotato di una macchina da scrivere, in occasione del rilascio di qualche certificato o altra documento, lo si vedeva caricare nel rullo la carta prestampata, e con lentezza esasperante batteva con un solo dito i pochi dati richiesti: cognome, nome, data di nascita e paternità  del richiedente. A quei tempi il Segretario non poteva firmare i certificati e bisognava aspettare il  delegato del sindaco. Quasi sempre un consigliere di Fossato. Il dott. Gullì, il farmacista Gullì, il veterinario Pellicanò, Basilio Bagnato. Delle volte, per l'urgenza della certificato, si andava a trovarli direttamente a casa e loro mettevano la firma sulla porta. Si tornava al municipio con la carta firmata e il Segretario  vi stampava sopra il timbro rotondo del Comune, naturalmente previo pagamento di lire 10 per la marca  dell’urgenza. Alcune foto della sua famiglia

Francesco Pellicanò

(U Sigritariu)

 

La Signora Grazia Strano "A Sigritaria"

La maestra di scuola per antonomasia, di mole molto robusta e dalle mani così grosse che quando dava una sberla la testa girava per una buona mezz'ora e le orecchie "zurriavinu" per un bel pezzo. Di carattere molto buono e di indole materna ma severa, faceva scuola in un locale della sua casa, esattamente 'ndo bassu che si affacciava sulla via IV Novembre. Aveva una cultura umanistica eccellente ed era molto preparata. I bambini avevano nei suoi confronti una timorosa venerazione. Era buona e nello stesso tempo molto rigorosa con quelli che avevano poca voglia di imparare. Guai a non sapere ripetere la storia o la geografia, dimenticare qualche strofa delle tante poesie che allora era tassativo imparare a memoria. La paura del castigo  faceva tremare come canne. Per il castigo, al contrario di tutti gli altri insegnanti, lei adottava un metodo spaventoso per quei tempi. L'alunno che non sapeva  ”i  lizzioni”, oltre alle solite vergate sul palmo delle mani, veniva adornato di gigantesche orecchie d'asino di carta e costretto a stare in ginocchio ma non all'interno dell'aula, bensì all'esterno nel cortile che si affacciava sulla pubblica via. La gente che passava non si preoccupava delle sofferenze del bambino in castigo. Ma, si trattasse anche dei genitori o dei parenti del reprobo, scherniva il poveretto con parole feroci: "Fici bbonu a signura maistra chi ti misi in castiu, i ricchi i' ll'assinu ti stannu boni, sceccu, cusì 'mpari mi ti fai i lizzioni". Sinceramente credo che anch'io in qualche occasione sono stato oggetto di  tale trattamento. L’insegnamento della Sigritaria era particolarmente indirizzato alla matematica. I problemi che faceva risolvere ai suoi alunni erano complessi e tra guadagno, ricavo, peso netto e tara delle volte le operazioni erano quattro, cinque se non di più. Dopo la sua morte credo che, la maggior parte dei suoi alunni almeno di sei generazioni diverse, la ricordi con affetto e non con astio  per i suoi castighi.

Grazia Strano

(A Sigritaria)

 

Greliu Saffi 

Un lontano pomeriggio di primavera mi trovavo al Portone e decisi di svoltare dietro l'angolo della casa del Podestà. Affrontai la ripida discesa che porta al rione della Filanda, dopo aver attraversato la strada più agevole di Jovàni. Presi a sinistra e mi trovai nello slargo dove spandeva una volta le chiome un nucaruni  a refrigerio di quelli che andavano all'acqua durante le infinite estati. Accesi la sigaretta e mi soffermai sulle case soggette all'antica influenza di Greliu, uomo dalla voce tonante scomparso da molti anni. Prima ancora, per molti altri, scanditi dal vestirsi e spogliarsi di quell'albero, seduto all'ultima occhiata di sole, il vecchio se ne stette a masticare il cannello della pipa spenta, giocando con le sue fantasticherie.

Si chiamava Aurelio Saffi, come il triunviro della Repubblica Romana. Gli aveva appioppato quel nome altisonante un pretacchione, o mazziniano e framassone o in vena di burle. Forse il vecchio seduto sul gradino rimuginava la sua stentata gioventù di figlio errante di un nobile Sgrò, a sua volta arrogante rampollo di satrapi indiscussi, che d'imperio fece prelevare il trovatello dal baliaggio da una famiglia del paese. I genitori adottivi incassarono uno scarso premio in denaro e usarono il projetto senza riguardi come gratuita manodopera. Forse a Saffi non importava nulla dei suoi poco nobili natali e dell'onta arrecatagli dallo sprezzante padre naturale che mai si interessò del frutto del suo peccato altolocato. Forse era intento a decifrare gli ignoti messaggi del vento che si incanalava nel vallone di Jovàni. Ogni tanto si torceva i baffi bianchi macchiati di fumo e osservava con sguardo intenso e solenne sotto i sopraccigli severi le manovre degli operai del frantoio del Farmacista di fronte, oltre l'argine. Nel tanfo acido delle morchie si alzava l'urlo di rabbonimento alle bestie che scalciando tremavano e si dimenavano in una specie di ballo senza suono. Vibravano come corde i muscoli degli animali e scuotevano i sacchi del carico. Era un fenomeno strano. Fu donna Marianna - che teneva saltuaria locanda nel rione per i rari viaggiatori, per lo più autisti delle corriere - a propagare la voce che gli asini ballavano perché le loro lunghe orecchie sentivano un suono di tarantella. Per loro suonava la chitarra il fantasma di Totò che tanti anni prima fu ucciso nel vallone durante una serenata. Fu scannato per questioni di femmine con un coltello passato a mola e cuoio e poi strofinato nell'aglio. Cadde sulla chitarra della serenata accosto al muro e lì rimase impigliata la sua anima.La superstizione rese di ragione pubblica quella credenza. Solo Aurelio Saffi sapeva la verità e me la confidò un giorno d'estate sotto l’arburintu del caffè di don Natu Morabito. Prima si ordinò il caffè.

            “Cummari donna Mariuzza, facitimi na guccia di café… amaru!”

Nell’attesa che gli portassero la cìcchera comandata, mi disse con fare misterioso da carbonaro che no,  non sentivano nessuna musica le povere bestie. Ma la corrente che scaricava dalla vicina cabina della luce sì. Con le scarpe di cuoio o di gomma gli uomini non ballavano, ma gli asini con i ferri nell'umida terra battuta si davano a danze sfrenate. Aurelio Saffi fumava e ridacchiava con il suo vocione, quell'uomo che mai andò alla ricerca di nobili ascendenze.

 

 

Peppe Portulisi

Tutte le case della stretta via di Coletta sono disabitate. Molte hanno subito la fatale metamorfosi delle vecchie costruzioni del paese: sono divenute nel loro lento decadimento magazzini, fienili, stalle o pollai e, infine, catoi senza tetto dove crescono le ortiche. L'unica che ancora sembra essere sfuggita a quel destino, anche se abbandonata da anni, sta di fronte alla casa di Carmelo Cirivillino. Intonacata di cemento, ostenta, a lato del pretenzioso portoncino di alluminio e vetro coperto di polvere, il nome del proprietario, vergato tanti anni fa con pesante grafia sul cartiglio del campanello elettrico. 

E’ appartenuta a Peppe Portulisi, cognato di Cirivillino per avere sposato Maria l’Orba,  sorella di Carmelo. Di mestiere banditore, si negava di persona a chiunque lo chiamasse di fuori a viva voce senza fare il debito uso del campanello, l'unico esemplare in tutto il rione e ragione di vanto del proprietario. Si trattasse pure della pubblica autorità, forza dell'ordine o emissario di notabili, gridava irato da dietro la porta con il suo italiano malcerto:  

“Se non sonate il campanello non ci sogno!” 

Dopo il ritiro per ragioni di età di Sarbu Cucchhja, a quest'uomo si faceva ricorso per ogni più disparata esigenza di divulgazione: era la gazzetta ufficiale del paese. "Bando, bando per davvero!" risuonava all'alba o sull'imbrunire la sua voce modulata e diffondeva con la stessa indifferenza avvisi e ordinanze del municipio, tradotti in rigoroso vernacolo, comunicazioni di vario genere da parte di compaesani o réclame pubblicitarie per conto di commercianti forestieri. Tanta energia di fiato e la voce dal tono possente non si riusciva a credere potesse albergare in una persona alta e segaligna, dal pomo di Adamo prominente e con la barba incolta a coprire la magrezza della sua faccia. Per parecchi anni rimase a memoria uno dei suoi bandi più curiosi. Quando fu completata la strada che negli anni passati portava al cimitero, lui, operaio della ditta che ha effettuato i lavori, con orgoglio per aver contribuito alla sua realizzazione, dall'alto del muro del passo di Pudhici, informava soddisfatto i paesani: < Bbandu, bbandu, si vvisunu i nostri paisani chi ora ponnu muriri in santa paci, a strata pi piraredha è finuta, liscia e dritta e i morti i putimu purtari a distinu, senza rischiu di sciampricati 'nda 'nsilicata>.

            Alle soglie della vecchiaia, si era dimesso dall'incarico per non pagare, a suo dire, la sopraggiunta tassa sulla ricchezza mobile che gravava sui suoi compensi, spesso elargiti in natura dalla committenza. Il ritiro dall'attività era in realtà dovuto al diffondersi dei manifesti murali e degli altoparlanti, più convenienti mezzi di comunicazione che avevano soppiantato l'antico e redditizio mestiere di banditore. 

            Peppe Portulisi e Cirivillino abitavano di fronte, ma tra i due non era mai corso buon sangue. Carmelo era solito dire che il cognato era tanto cornuto che poteva fornire di pettini e bottoni non solo l'intero paese, ma anche tutte le sessantasette frazioni del comune. Al primo sbattere serale di posate proveniente dalla casa di Peppe, Carmelo gli augurava ad alta voce: 

"Che ti mangi peste!" 

 Peppe da dietro la finestra rispondeva: 

 "Io mangio carne! E tu l'hai preparato il rancio, o dormi a pancia vacante?" 

 L'altro di rimando, a tondo di palla, ironico e beffardo:  

"Carne, quale carne? E quando mai? Friggi pezze."  

E alludeva alla pratica che l'orgoglio dettava ai più ddijuni di ingannare il vicinato sul proprio vitto con l'odore di stracci unti d’olio buttati sul fuoco, molto simile a quello della carne arrostita che non si potevano affatto permettere.  

            Peppe, dopo cena, senza muoversi dalla sua cucina, gridava: 

            "Carmelo, ascolta." e gli spediva una scoreggia lunga e modulata come una serenata.  

  "Signor cognato, non vi sapevo fine musicante!" Era la risposta ironica e lapidaria di Cirivillino. E, dopo una pausa necessaria per prendere fiato, la continuava trasformandola in un urlato e sentito auspicio:  

"Che ti spacchi la pancia, maiale e porco!"  

L'altro, in poesia: 

"Bonavinuta, o pìditu valenti,

alla facciazza di cu ti scutau..." 

Carmelo, dandogli sulla voce, lo sovrastava: 

"Alla facciazza di cu ti jettau.

Tu chi venisti da chiss’èrrima  panza,

finu a matina m’è  mali di 'hjau'." 

            Quest'ultima parola - che in un lessico dialettale ormai perduto designa una feroce forma di bulimia - per la sua assonanza con il passato remoto del verbo gettare ("jettau"), al pari di quella del verbo ascoltare ("scutau"), si prestava magnificamente alle esigenze della rima alternata. 

            Tra questo e innumerevoli altri auguri di botta di sangue, i due vissero gomito a gomito per anni, fino alla morte di Peppe. La notte che allestirono la camera ardente con il morto sul catafalco, Cirivillino, ubriaco come una botte di mosto acido, si presentò alla veglia funebre a cantare un ultimo residuo di benedizioni al cognato.

 

Peppe Potulisi

Finimundo

            Chi ancora oggi imbocca la vinella del Purtuni, una stretta e contorta andana che porta agli orti, entra nel regno di Finimondo, che in quei catoi aveva tenuto ovile. Passando accosto a quelle mura lo può richiamare in vita. E allora appare un uomo dalla faccia antica, nell’eterno immoto pomeriggio estivo scandito dal verso delle cicale, con socchiusi occhi di pietra muschiosa, intento a guardare da un'altura ventilata le pecore al pascolo. Appoggiato al lungo bastone, con l'ascia di buona tempera e il manico di faggio trattenuta dal braccio piegato. Segaligno, di pallore spettrale, la bocca amara dalle labbra piagate dal vento, in coppola, bèrtola e giacca di fustagno sulle spalle. Uomo d'un pezzo, convinto nella primitiva e rude dignità che la giustizia stava dalla parte opposta a quella della legge: i militi della forestale erano i suoi nemici giurati. Per anni i campani delle sue pecore avevano riempito le campagne spandendo attorno con i loro suoni sbilenchi il senso di pacata tranquillità della mandra al pascolo, ma la sua voce aspra, con le crude bestemmie rivolte alle bestie, rompeva l'armonia e riportava su un piano più terreno chi rifiatava appoggiato al manico della zappa distratto da improbabili fantasmi bucolici. 

            Al vecchio è subentrato il nipote che istinto e natura spinsero a seguire la vocazione armentizia di famiglia. Nel suo dedicarsi  alla pastorizia si è adeguato ai tempi convertendosi alla meccanizzazione, dal momento che ormai le piste carrozzabili in terra battuta si sono sovrapposte alla fitta rete degli antichi sentieri.  Derogando all'orgoglio e alla fierezza del nonno - tipica dei massari proprietari di armenti, progenie delle antiche genti grecaniche che hanno imperato sulle nostre contrade - poche volte le sue bestie ha portato a piedi sui pascoli delle nostre colline. Preferisce ingrassarle nelle marine e le segue dovunque a bordo di una Vespa sgangherata.

 
 

Mastru Brunu Moscato

Cumpari Mastru Brunu Moscato fa parte a pieno titolo della nutrita schiera dei personaggi fussatoti. Faceva u scarparu al Casalucciu e abitava nella prima casa sulla destra della strada che portava alla Guerrera e a Fussatedhu.  Lì davanti c'era il forno della moglie. Cummari Tidora lo utilizzava per fare il pane a parecchie famiglie del rione. Cumpari Mastro Bruno esercitava il mestiere nella parte anteriore della casa. Il banchetto da lavoro si trovava quasi sulla porta e dalla strada si sentiva il battere del martello che 'mbidhava i zippi 'nde soli delle scarpe. Con arte sopraffina tagliava con il trincetto le tomaie di cuoio che poi cuciva adattandole alle forme scelte dai clienti. Le sue dita, soprattutto gli indici, a furia di tirare le cuciture delle scarpe erano diventate arcuate all'altezza della prima falange verso l'esterno delle mani. Si racconta che nel periodo della macellazione dei maiali facesse il giro del paese a fare scorta del pelo setoloso della grigna degli animali. Lo utilizzava come guida, fissato con colla speciale allo spago per cucire, per infilare con agio il filo nei buchi fatti con la lesina nelle tomaie. Cumpari Mastru Brunu era di corporatura molto piccola e gracile, portava sempre un cappello di feltro unto e bisunto che in origine doveva essere di colore marrone. Non aveva nemmeno un capello e la sua pelata lucida la si poteva intravedere in rari momenti, cioè quando si toglieva il cappello per salutare le persone con un gesto che si accompagnava all'inchino artefatto per dimostrare ancora di più il rispetto verso la persona salutata. Ma Cumpari mastru Brunu aveva anche un vizietto: il vino. Lo si vedeva di buon'ora al bar di don Natu Morabito e, un bicchiere dopo l'altro,  in poco tempo perdeva il lume della ragione. Il buon don Natu lo invitava a tornare a casa dopo l'ennesimo bicchiere. Cumpari Mastru Brunu allora usciva dal locale e dopo pochi metri era nel bar di 'Ntoni Foti. Stessa scena. Dopo qualche ora ormai all'estremo della lucidità prendeva la via di casa, non tralasciando di fare però il bicchiere della staffa nel bar di 'Ngeniu Tripodi. Da questo locale a casa sua non c'erano nemmeno duecento metri di distanza che per lui, avanzando a zig zag, diventavano chilometri. Noi bambini piuttosto maleducati, approfittando del suo stato di ebbrezza, lo schernivamo indecorosamente. Tra una bestemmia e l'altra cercava di rincorrerci pronunciando una curiosa frase: “Cornutelli, se vi prendo vi taglio le code”. Rientrato a casa, la farsa continuava con la moglie, Cummari Tidora, e, forse nella concitazione e negli sbandamenti proverbiali capitava che la spintonasse. Gli occhiali di Cummari Tidora quindi erano perennemente rattoppati, sì, proprio rattoppati, alla meglio con un pezzo di stoffa e del filo sopra come ingessatura delle stanghe o delle lenti che si rompevano cadendo a terra dietro gli spintoni di Mastru Brunu. Nonostante le centinaia di ettolitri di vino ingurgitato nella sua vita, e forse per suo merito, mastru Brunu visse molto a lungo superando i 95 anni di età.

Mastru Brunu Moscato con suo nipote Antonio Lugarà (U Ccippu)

 

Carmelu Tripodi "U Tinturi"

Chi di noi non ricorda don Carmelu "U Tinturi", ovvero il “bigliettaio” per antonomasia delle Autolinee Tripodi, scomparso di recente? In molti di noi che abbiamo superato da un po’ la quarantina ha lasciato una traccia indelebile, un ricordo caro degli anni della gioventù, quando viaggiavamo con l’autobus per andare alle scuole superiori di Reggio. Don Melo aveva un carattere benevolo che spesso mascherava da indole burbera per tenere a bada l’orda di scalmanati che la mattina presto e nel primo pomeriggio andava e tornava dalla città.

Nato nel 1921, partecipò alle Seconda Guerra Mondiale nell'Arma dei carabinieri. Finita la guerra, ritornò a Fossato per emigrare dopo qualche anno in Francia con il fratello Eugenio, "Jeck" in cerca di un lavoro. Nel 1951, ricevette una lettera dal Cav. Domenico Tripodi, titolare dell'omonima ditta di autolinee, da poco tempo inaugurata tra Fossato e Reggio. Da allora egli fu il "bigliettaio". Durante i viaggi, una volta fatta la controlleria e distribuiti i biglietti, si accomodava sul cofano-motore dell'autobus rivolto verso i viaggiatori per tenere sotto controllo il comportamento di noi ragazzi. Non tollerava che ci spostassimo continuamente di posto e che parlassimo ad alta voce. Allora minaccioso si avvicinava con la pinza dei biglietti in mano e la turba si chetava. Se notava qualcosa di strano, amichevolmente ci chiamava in disparte e lontano da occhi e orecchie indiscrete ci rimproverava con modi paterni. Quando la calma era stabilita, lo si sentiva canticchiare in sordina canzonette della sua gioventù. "Da Napoli si vede la Sicilia...". Difficilmente  prestando la massima attenzione si riusciva ad afferrare qualche parola.

Epici sono stati i viaggi tra Fossato e Montebello lungo la fiumara a bordo del vecchio Dodge tre assi (il mitico Lupo del Fiume) il residuato bellico guidato da Domenico Minniti, "Micu u Lupu". Quando la fiumara era in piena, impavidi dei marosi che si generavano quando le acque si scontravano a rovina, i due scherzando infondevano sicurezza ai passeggeri. Una coppia affiatata, che si rispettava senza timore di rimbrotti e sfottò reciproci. Don Carmelo ha rappresentato una figura di rilievo per la crescita dei giovani che fummo e ha lasciato una traccia indelebile nella nostra mente. Capitano, continua nell'aldilà con intransigenza la tua controlleria, ma volgi un occhio di riguardo ai nostri ragazzi che quei tempi non hanno visto.

Carmelo Tripodi

"U Tinturi"

 

Don Ciccio Vento

 Don Ciccio del Dannato abitava a Giandone, proprio nella piazzetta che dava sulle Baracche, rione che aveva preso nome dai prefabbricati del terremoto del 1908. Davanti alla sua porta c’era una grata di ferro: il tombino che raccoglieva l'acqua della fontana. Seduto sul sedile di cemento addossato al muro, don  Ciccio Vento era eternamente intento a fare la punta ai pali dei fagioli su un ceppo di legno. E urlava all’improvviso, distolto dai suoi pensieri e dal suo canto in sordina. S’incazzava e urlava al turpiloquio degli accaniti della briscola nell’osteria del Buccere.

 "Sciarappa, sanemabècci!"

In inglese, o meglio in broccolino. Una delle poche reminiscenze lessicali che ricordava da buon italo-americano d'anteguerra.

L’asina legata all’anello “nnazzava”come pigliata dalla mosca, spaventata dall’urlo e dai capelli  scompigliati del padrone, che pareva avere infilato due dita nella presa della “lettrica”.

Don Ciccio, tornato dall’America, era diventato un “riccimmenni”, ma rimaneva sempre uno parsimonioso assai. Di lui si raccontava un aneddoto spassoso che risaliva ai tempi della guerra. Una cosa che l'aveva fatto piangere come un bambino per la stizza e l'irritazione. In quegli anni di miseria generale, nonostante don Ciccio fosse in condizione tale da potersi permettere anche la lana della borsa nera, per sparagno si fece cucire un paio di calzoni con la tela dei sacchi di farina razziati da una nave mezzo affondata dalle bombe e rimasta incustodita alla marina. Quell'indumento di fortuna, improvvidamente bagnato da un temporale, divenne rigido come lamiera e lo intrappolò in mezzo alla fiumara di Capani in balia del maltempo. Lo portarono a casa a braccia bagnato come un coniglio e con le gambe piagate, ma solo dopo che il tempo era “scarmato”.

"La testimonianza diretta del nipote lo ricorda come provetto rifinitore per pali da fasciolato, era anche abile costruttore di pifferi di canna, di palli di brigghja e trombette ca cannozza di cucuzzari. Inoltre nel suo giardino teneva sempre un landuni tuttu ruggiatu dove allevava amorevolmente buffi  dalla strana pancia arancione perchè si mangiavunu i babbalucci du ggiardinu"

 

 

 

Mastru Cicciu (Pellicanò) U Rhonzu

Chi non ricorda a forgia di Mastru Cicciu U Rhonzu? Negli anni '50 era in Piazza Municipio, dentro un mezzo casalino dove ora c’è la casa di Peppi Morabito Chjavulitta, a fianco della Guardia Medica. Allora u Rhonzu lui abitava in Piazza Leone Sgro. Si entrava nell'officina accolti dall'acre odore del fumo del carbone di legna che ardeva su un banco metallico sovrastato da un grosso mantice che soffiava per ravvivare le braci necessarie per arroventare i ferri delle piccozze, delle asce (sciuni) e di altri attrezzi agricoli che venivano "’zzariati" con maestria. Assegnatagli la palazzina, trasferì l’officina in una costruzione in legno e lamiera proprio davanti all'asilo. U Rhonzu era un ottimo artigiano, specializzato nella ricostruzione di pezzi di precisione per lo più utilizzati per le armi da fuoco. Non esisteva pezzo di piccole o grosse dimensioni che lui non riuscisse a realizzare utilizzando lime di varia grandezza. Firrava puru i scecchi e i muli dei nostri paesani e spesso toccava anche a noi bambini portare i quadrupedi alla ferratura. Gli dovevamo reggere le zampe mentre con maestria misurava i ferri, spianava le unghie con raspa e tenaglie fino a raggiungere il bianco dello zoccolo. Una volta preparata la sede del ferro, per farlo calzare a perfezione ed evitare le zoppie alle bestie, usava una tecnica particolare: arroventava il ferro e poi lo poggiava sulle unghie degli zoccoli. Tra lo sfrigolio delle unghie bruciate, si alzava ilfumo di un olezzo così acre che spesso a noi ragazzini veniva da vomitare. Mastru Cicciu era senza una gamba, se non sbaglio la sinistra, e nel suo lavoro, quando doveva piegare l'arto di legno lo si vedeva armeggiare all'altezza del ginocchio della protesi finchè riusciva a piegarla. Forse solo qualcuno ricorda la leggenda paesana della causa della perdita dell’arto. Noi la tralasciamo e qui la mentoviamo soltanto per richiamarla a qualcuno che vorrà riportarla in vita. Con il passare degli anni mastro Ciccio comprò una Motoape che, modificata e attrezzata con tendine ai finestrini ed un ampio sedile nella parte posteriore, gli consentiva il trasporto di tutta la famiglia, sua moglie avanti nella cabina di guida e i figli dietro. Faceva anche dei viaggi fino a Reggio, dove si trasferì dal paese, per dare modo alle sue figlie di lavorare senza affrontare il lungo viaggio in pullman. Sua moglie, a cuggina Nunziata, fu per tanti anni la cuoca della mensa scolastica, u caddaru,  e poi bidella nelle scuole elementari. Avevano cinque figli, quattro femmine ed un maschio che, esclusa la primogenita fattasi suora, erano sordomuti, ma dotati di una sensibilità, educazione e socialità al di fuori del comune. Incontrando la gente, solo a gesti,  salutavano e scambiavamo convenevoli e notizie con estremo garbo senza che il loro handicap fosse in alcun modo di ostacolo.

Francesco Pellicanò U Ronzu

 

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