"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

 






 

 

Vecchi Racconti

Questi racconti sono stati scritti da un nostro caro amico e compaesano, che con spirito di collaborazione ha voluto offrire qualcosa di suo per ampliare le pagine dedicate a Fossato.

Premessa

"Si raccontava una volta (al giorno d'oggi simili pratiche non s'usano più); d'inverno accanto al fuoco, sotto gli olivi, dal barbiere o nella bottega di sarto o falegname; d'estate, all'ombra e al rifiatare di debole brezza, storie antiche e recenti con intenti edificanti, per parabole e per apologie - e non era importante il conto, a tutti noto, quanto il porgere virtuoso del popolare rapsodo che piegava alle sue proprie attitudini la vicenda -. E si inframmezzava un conto e l'altro con scherzucci grevi per le disparate vittime, capitate a tiro di lingua, di mano e più sovente di piede. Ordunque, a parecchie rappresentazioni avemmo un tempo la ventura di capitare, ma del privilegio concessoci rimane scarsa traccia nella memoria che nel volgere del tempo si trasmuta in voglia di riedificare l'impianto del narratore, apprezzato al tempo e da pochi ancor oggi, per ricreare col modo e l'arte sua antiche aure".

La luna di Napoli

E' fuoco quello?

L'olio di Pascalazzo

Il Palazzo di Monte Scarrone

Il Viaggio e la partenza

Dell'amore tradito

Solo per il nome

Pulcino, la staffetta partigiana

10 Agosto, San Lorenzo


La Luna di Napoli

"La natura non è mai stata con noi. Non è amico chi ti lotta e ti contrasta con accanimento. Tu la tratti con amore e sentimento e lei ti ricambia con un'annata che non buschi un chicco d'oliva, con un mare di pere marce. E' stato sempre così, a memoria d'uomo... Mettiamo, quest'anno si presentava bene. Gli ulivi erano carichi come grappoli di racina che si pregava l'occhio. A luglio che fa? Non si mette a fare una burrascata d'acqua da far ribollire tutti i paesi! Fosse finita qua... Non ti arriva la mosca olearia come un flagello? Vai a guardare: ti prende la parusìa."

Le braccia incrociate e i gomiti appoggiati alla ringhiera di ferro, mio padre parla senza ardori, con serafica calma inframmezzata da regolari tirate di pipa. La maschera di rughe è imperturbabile, ma sotto, invisibile, c'è la sofferenza pacata dall'esperienza. Gli occhi socchiusi scrutano la collina di fronte immersa nel buio come per individuare la provenienza del gracidare delle rane.

In questa stagione il caldo rende piacevoli le notti e spunta dietro le colline la luna più bella dell'anno. Nella quiete che approfondisce l'oscurità dove non arrivano i suoi raggi, il mio vecchio ama fumare la pipa seduto sul balcone. Si guardano a tratti lui e la luna. Hanno da confidarsi segreti arcani, impenetrabili. Si confessano con gli occhi, si svelano misteri. Forse anche quelli che fanno crescere più in fretta le piante messe a dimora con la luna nuova, ma certamente non il moto delle maree che non interessa. Di sicuro il mio vecchio certe domande non si pone.

Tra i tanti misteri, però, il più profondo rimane il legame che intercorre tra di loro. Inspiegabile, magico, ancestrale. I due si parlano fin quando la luna non si allontana dalla cresta delle colline per campeggiare alta nel cielo velata di sprazzi di nuvole capricciose.

"Ricordi, pa', la storia della luna di Napoli?"

Gli occhi fissi all'orizzonte, si scuote e si gira lentamente verso di me. Ora mi sta scrutando per leggere l'intenzione della domanda. Mi atteggio a serietà, o almeno tento di nascondere lo sfottò che tanto teme. Si rigira dall'altra parte e prende in mano i fiammiferi per riaccendere la pipa. E’ proprio invecchiato, le mani sono diventate legnose, il naso e le orecchie gli si sono ingrandite, anche la testa.

"Allora?" insisto, senza più molte speranze.

Il vecchio guarda la luna come per avere il suo assenso, poi, dopo aver sputato nel buio oltre la ringhiera, sbotta:

"Eppure il fatto è vero. E' successo all'epoca, ma è un fatto vero."

"Già," faccio. "Quando il sale costava un tornese."

E' una provocazione aperta, ma il vecchio non raccoglie. Ormai è lanciato e ne approfitto.

"Il fatto è successo quando Guerin Meschino dava la caccia a Prete Janni sull'Aspromonte."

"Scherza, tu. Il fatto è veritiero. Lo raccontava mio padre e diceva che questi fatti ammaestranti ci avrebbero fatto imparare tante cose utili per la vita."

"Forse vi raccontava queste cose per farvi rimanere a testa calata. Il contadino deve rimanere contadino e basta. Il destino del povero è quello di essere povero. Come natura, fino a sepoltura..."

Non mi fa finire.

"Va', va', o cazzolata! La parola dell'antico si prende, altrimenti si prendono le bastonate della vita!"

Questa sentenza la pronuncia mentre si alza per entrare in casa. Penso che ormai sia andato a dormire, il mio Solone. Sento lo scroscio dell'acqua nel lavandino: sta bevendo. Poi ritorna sul balcone e siede pesantemente. Vorrebbe convincermi. Con stizza sbotta:

"Ormai non credete più a nessuno. Tanto vale che noi vecchi ci tappiamo la bocca. Per quello che ce ne viene... Vi abbiamo mandato a scuola e questi sono i frutti. Quando ero giovane io comandava mio padre, ora che sono anziano comanda mio figlio... Guardate a nottata la televisione e non ascoltate mai nessuno, come se aveste la ragione in affitto. I bambini sono senz'anima, gli hanno rubato la testa. Marito e moglie non si parlano più. Hanno la televisione! E la storia degli antichi si perde. Abbiamo scambiato l'oro con il piombo, il pane di grano con quello di farina di loglio..."

Dice le sue verità e non ha tutti i torti.

"Bada che quando parlo di queste cose ti racconto preciso come l'hanno detta a me."

Poi dopo una lunga pausa riprende.

" Ora ti conto la luna di Napoli. Dunque, un padre decide di mandare agli studi suo figlio e, presi gli accordi con i preti di Napoli tramite questo di qua, lo manda in collegio. A quei tempi per mantenere un figlio agli studi ci volevano soldi a palate. Non era peso per le nostre spalle, roba da signori. Non come ora che vi abbiamo fatti studiare tutti. Comunque, quel povero padre aveva preso la decisione, costi quel che costi, di far cambiare condizione al figlio e di tenerlo lontano dalla zappa. Si levava il pane di bocca, buttava sangue sulla terra, sparagna oggi e sparagna domani, riusciva in qualche modo a pagare la retta dello studente. Passa l'anno e vengono le vacanze. Il padre prepara i bagagli e va a Napoli per riportare il figlio a casa."

"Ma anche per verificare il profitto" dico. Stavo per dire l'investimento, ma mi freno in tempo. "E poi esibire il fenomeno per il paese."

Nemmeno stavolta raccoglie, anche se mi pare spazientito più per l'interruzione che per la palese provocazione.

"Dunque, parte e dopo giorni di viaggio, come capita capita, arriva finalmente a Napoli. La città è una cosa magnifica: luci, gente, colori. Per non farla lunga, Napoli è sempre Napoli. Chiede informazioni e, come vuole Dio, arriva al collegio del figlio. Trova lo studentello, se lo abbraccia e per la contentezza, prima di prendere la via di casa, se lo porta a mangiare in una trattoria sul mare. A Napoli, tu non lo sai, c'è un golfo meraviglioso e poi c'è quel Mongibello lì, come si chiama?.."

"Vesuvio."

"Vesuvio, ecco, bravo! La luna, le stelle, la musica. A Napoli sono sempre stati valenti suonatori."

"Ma, pa', tu sei mai stato a Napoli?"

"A Napoli? Uh! Da militare, quando ero a Nola, avevo pure la zita. Comunque, lasciami finire che adesso viene il bello."

E figurati se il vecchio si lascia scappare occasione per infilare nel discorso la solfa di quando era soldato. Per lui quei mitici anni rappresentano la pietra miliare della sua giovinezza, che crede sia appena trascorsa.

"L'indomani partono per fare ritorno a casa. Dopo giorni di viaggio - allora occorreva una settimana buona buona -, imboccano finalmente la strada che dalla marina porta al paese. Era una bella serata d'estate come questa e la luna giocava a tresette con le stelle. Lo studentello, che durante il viaggio era stato zitto, disse all'improvviso: 'Papà, la nostra luna è molto bella, ma la luna di Napoli...!' Il padre si sentì perduto. 'O povero me.' pensò. 'Ho perso i soldi con quest'asino. Non capisce neppure che di luna ce n'è una sola, figuriamoci le altre cose!' Lì per lì non si piombò, ma l'indomani mattina svegliò il figlio e gli disse: 'Qua c'è la zappa. Questo d'ora in poi è il tuo strumento. La scuola non fa per te e Napoli e quell'altra luna te la puoi scordare.' Poi se lo portò in campagna a fargli vedere di quale erba è fatta la scopa."

Un sorriso di soddisfazione si dipinge sul volto di mio padre. Per lui l'epilogo della storia non ammette varianti. Così doveva finire e così è finita. E non poteva essere che così. Nel frattempo la pipa gli si è spenta. Si alza in piedi per meglio frugare nelle tasche in cerca dei fiammiferi. Riaccende e con soddisfazione torna a sedersi. Tutta l'operazione è compiuta con studiata lentezza. La dovuta risposta alle mie provocazioni.

Mi alzo anch'io, entro in casa a versarmi un bicchiere d'acqua. Quando torno, il vecchio se ne sta tutto goduto e con le gambe allungate. Questa volta sono io ad accendermi la sigaretta.

"Pa', dico, ma tu in tutta la tua vita hai mai riflettuto bene su questo racconto? Lo hai ripetuto a noi figli fino alla noia e speri di continuare a farlo con i nipoti e con quanti avranno la ventura di ascoltarti, sempre con la convinzione di stare dalla parte giusta, o meglio, di chi ragiona con cognizione di causa e sentendosi in diritto di dare consigli e suggerimenti agli altri. Che poi sono degli ordini. Tipo: se non fai come ti dico, sbagli e sono cavoli tuoi."

"Ohè", mi risponde. "E' solo una storia!"

"E' un fatto. La storia è un'altra cosa."

"Credo che tu ti senta toccato. Hai forse la coda di paglia?"

"Preciso come nella storiella. Prendi le distanze da cose che non conosci e che temi. Fai come i bambini che quando hanno paura chiudono gli occhi. Avete sempre riso sulle cose che non capite e che vi spaventano. Le avete girate a barzelletta."

"Che, barzelletta? Lasciamo perdere che con te è solo acqua santa persa. Da quando in qua i fatti degli antichi sono barzellette?"

"Lasciamo perdere."

"Eh, voialtri giovani che vi mangiate il mondo! Se qualche volta prendeste le parole degli antichi..."

"Pa'", dico. "Abbi pazienza. Ascolta un po' che voglio capire. Secondo te il significato della storia può essere uno soltanto? Voglio dire, quello dell'imbecille per il quale non vale la pena di spendere denaro per farlo studiare?"

"E quale altro, sennò?"

"Vedi, i casi possono essere due: o il figlio è idiota, secondo il tuo significato, oppure il padre, e con lui tutti quelli che la pensano allo stesso modo, è bestia con la scorza e animale da corda."

"Guarda, guarda! Sentiamo dove vuole arrivare questo." E fa finta di porgere annoiato e superiore ascolto.

"Voglio dire - rifletti insieme a me - che se la storia è come la racconti tu e il figlio aveva creduto a due o più lune, il significato fila. Ma se, come credo io, il ragazzo, dopo la permanenza a Napoli - tra l'altro la storia non racconta se è stato promosso o meno e io credo proprio promosso, se no, altro che trattoria! -, frequentando persone istruite e non solo pecorai e contadini, aveva voluto dire che la luna di Napoli, cioè come appariva a Napoli, bada, come si vedeva a Napoli, sembrava più bella di questa. Precisiamo: più bella di come si poteva vedere in mezzo a questi valloni lontano da ogni grazia di Dio, che poi è anche molto bella. Quindi ha voluto dire delle cose sacrosante che il padre con il suo cervello fino non ha capito."

"Tutto può essere nella vita" concede. "Ma tu, come al solito, interrompi sempre. Altrimenti ti avrei raccontato il finale che è molto educativo per gente come te."

"Sentiamolo questo finale edificante."

"Verso la fine di quell'estate il figlio chiama il padre e gli fa: 'Caro padre, avete fatto bene a darmi una lezione, ché veramente la meritavo. Ora, nella vostra benevolenza, mi volete accordare di rimandarmi allo studio? Vi prometto che porto frutto.' E' inutile dire la soddisfazione e la contentezza di quel padre che lo mandò di nuovo a studiare in collegio. A questo punto, la storia è veramente finita con buona pace di tutti e io vado a letto. Buona permanenza!."

Si è fatto tardi per il vecchio che di solito va a letto con le galline e si sveglia con il gallo. Ritiene chiusa la discussione e si alza lentamente dalla sedia.

"Domani ho lavoro che mi aspetta." E sottolinea 'mi aspetta' nel tentativo di farmi sentire in colpa per il fatto che sono in vacanza. Roba inconcepibile per lui e per i suoi simili. Come se tutta la fatica del mondo gravasse sulle loro spalle.

Rimango solo sul balcone. Accendo un'altra sigaretta al buio della notte inoltrata. Un dubbio mi è rimasto: il figlio era veramente un cretino che aveva scelto tra due mali, oppure si trattava di un ragazzo intelligente che aveva capito la mentalità del padre e l'aveva assecondata per perseguire il suo scopo? Potrei chiederlo alla luna che mi guarda muta in attesa di correre in cielo verso contadini che l'aspettano in qualche altra parte del mondo.

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E' Fuoco quello?

Seduto sul gradino chiedeva ai vicini allarmati cosa stava succedendo. Cos'era tutto quel trambusto per le strade, quel putiferio che manco si poteva digerire in pace i quattro bocconi della cena? E chiedeva a ognuno, ma quelli, trafelati, con vanghe e zappe, badavano a chiamarsi a gran voce, si davano appuntamento alle scorciatoie e la confusione era tale e quale quella della processione della Vergine l'otto di settembre.

- Ma insomma, si può sapere che scascio sta succedendo?

- Non lo vedete il fuoco, don Ciccio? Sta bruciando mezza vallata. Di qua niente, ma dalle case dell'alto si vede un lustro che pare mezzogiorno. Gli tagliassero le mani a quel farabutto che ha messo fuoco! Voi non venite con noi?

- Vengo anch'io. Il tempo di prendere qualche attrezzo.

Fece solo finta di alzarsi, ma non si mosse dallo scalino. Lentamente accese la pipa schiacciando il tabacco con la testa del chiodo. Un acre odore di toscano si sparse intorno fin dalle prime boccate.

- Ci manca che vada pure io - pensava e con la mano faceva crocchiare la barba del mento. - Ah, cazzolata! Se vengo pure io a fare il pompiere, faccio primiera. E se mi precipito a rotta di collo come voi, anche tre tre e napoletana a coppe. Andate a pigliarvela dove so io. E che si sderegni la mala genìa dei ladri e dei malfattori. Vengo, vengo anch'io. Intanto cominciate ad andare che vi raggiungo!

Don Ciccio era un vecchio tracagnotto, legato alla sua terra come un cane alla catena. Sotto la berretta una maschera di rughe e due fessure per occhi. Il taglio della bocca era così sottile da fare intuire un'arguzia da gesuita incanaglito. Le sue battute erano rasoiate, velenose come morso di vipera. E parola detta e colpo menato, senza remissione. Sul suo naso non posavano mosche. Si faceva i come si chiama suoi e il mio è mio e fuori dalla mia porta a chi piglia, piglia.

Tre milioni gli erano costate le reti nuove per raccogliere le olive. Tre milioni sudati e risudati. Denaro contante: una carta da mille sull'altra che pesavano come tegole mentre le contava sudando al cassiere del consorzio agrario. Si era tolto il pane di bocca un giorno sì e l'altro anche. Per sé non gli importava, ma crepava come un cane rognoso per i patimenti che imponeva alla famiglia. Alla piccola mancava il cappotto per andare a scuola, e niente. Alla moglie sempre no per un capo di biancheria per la dote di Carmelina, la maggiore. Un frutto sempre negato con quel camion che passava pieno di ogni ben di Dio che diceva mangiami, mangiami. E quel farabutto dello Scalzo, il fruttivendolo, che bandiava: "Frutta, frutta!". Le creature stiravano le gambe e il suo cuore si tagliava.

Ma doveva comprare le reti per raccogliere quel pugno di olive, se no, altro che sfizi, manco il necessario si potevano permettere. Le reti, c'era bisogno delle reti prima di tutto. Risparmia oggi per avere di più domani. Ma in famiglia non lo volevano capire. Quante liti! Quella sgalipata della moglie al posto della lingua aveva una serpe velenosa. Ah, spina ventosa! E quante ne doveva patire? Cosa ne sapeva la gente del veleno che era costretto a inghiottire? Aveva lo stomaco come un colapasta.

Anche i figli maggiori gli si erano parati contro. "Non fare quella spesa che è troppo per le tue forze." Vedete, gli parlavano anche in lingua, gli studiati. Ma a cacciare una lira manco a puntarli con il fucile. "Guardati allo specchio una buona volta e vatti a ricettare al sole come tutti gli altri vecchi. Le figlie te le sposiamo noi." Così gli dicevano, ma l'olio passavano a ritirarlo dal magazzino suo. E le patate, e gli ortaggi? E il resto? Casa sua era diventata il deposito dell'UNRRA, altro che gli sposavano le figlie! Quelli erano cani che spolpavano l'osso. Aspettate, canaglie, che ve la faccio vedere io che vi ho cresciuti e sistemati. Questo petto e queste braccia vi hanno fatto cristiani e ora vi mettete contro vostro padre. Fuori, fuori da casa mia!

Un barbettone sull'altro, tre milioni, una pinna del suo cuore. Come l'ostia consacrata li aveva portati al cassiere del consorzio agrario. Senza grazia e senza misericordia. E quando gliele avevano consegnate, quelle belle reti bianche e lucide, le aveva srotolate davanti casa e segnate con la vernice rossa, anche contro il malocchio. Dio ci scansi e liberi dall'invidia dei mali vicini! Con amore infinito le aveva tagliate a misura e ammucchiate sotto gli alberi. Su quella terra che aveva pulito come una tovaglia, liscia come la seta, un damasco che ci potevi mangiare sopra.

Un mese aveva impiegato, trenta giorni filati a tagliacuore, senza raddrizzare la schiena neanche per rifiatare. Le aveva stese accarezzandole con i polpastrelli, tastandole maglia a maglia. Era venuto un lavoro da mastro rifinito, da pittore sopraffino. Terra pulita e spietrata, senza spuntoni, gramigna sradicata, levate le escrescenze dai paletti di sostegno e l'annata che prometteva fiori di gelsomino.

Il raccolto era stato veramente abbondante. Con il risparmio di mano d'opera si pagava un terzo della spesa. Aveva finalmente zittito la moglie. Ah, cavolo, quando bisogna farle le cose, bisogna farle! Altre due annate come questa ed era tutto pagato e le reti rimanevano al sottoscritto. Cervello, moglie mia, cervello!

Ma una mattina che andava a controllare sotto gli alberi, senza mangiare e senza bere, le reti erano scomparse, tutte, fino all'ultima cima di spago, volatilizzate. Non avevano fatto nemmeno la fatica di ammucchiarle: gliel'aveva fatto lui quel lavoro. A letto aggiustato, come un invito a carne e pasta. Disgrazia li colga nel taglio della mezzanotte! La campagna piangeva lacrime di fuoco. I suoi alberi avevano perso il pudore, spogli come Gesù in croce.

Don Ciccio si sentì cadere le braccia. La testa gli ronzava come una rangiara piena di passeri all’Avemaria. Cadde seduto sul muro a secco e lì rimase immobile per ore. Che tragedia, che sale per la sua casa! Tutto era niente a confronto di quello che gli passava per il cervello e gli rodeva le viscere.

O gran figli di appestata, che vi cercavano le reti mie? Vi davano fastidio o cosa, vi sconsavano? Quanto le avevate pagate? Botta di sangue nel sonno, capostotico nel budello mastro, matrone di mele acerbe nell'intestino, groppo di fichi d’india che non vi spurghi neanche il fuso! A medicine, a medicine dovete spendere quello che mi avete rubato. Male senza rimedio per sette generazioni. Vi potessero acchiappare queste mani! Alla rovina mi avete portato, all'elemosina!

Dopo lo sfogo subentrò la calma dello sconfitto. Come fare a dirlo alla moglie? Scascio per la sua casa. Divulgare la notizia non era affatto cosa. Dover dire che gli avevano rubato le reti sotto il naso... Non sarebbe servito a nulla se non ad umiliarsi davanti a tutto il paese. Come mettersi le corna da solo in fronte. Parlarne almeno in casa? Altra disgrazia grande. Meglio scappare come un cornuto. Dirlo solo al figlio maggiore? Buona lana quello, che per l'ammaccatura dell'automobile, tra denuncia all'assicurazione, vigili, periti e tutti i santi morti, la riparazione l'aveva dovuta pagare lui e pipa. L'avrebbe mandato a denunciare il furto. Dai carabinieri? Sì, scrivete a niente, signor maresciallo! Parlarne in giro era perdere non solo le reti, ma anche la faccia, cornuto e bastonato. Bisognava trovare la soluzione giusta. Sapere aspettare. Il tempo è maestro. Intanto calma e sangue freddo: rifletti, Ciccio, e acqua in bocca. Il topo disse alla noce: "Dammi tempo e ti buco".

Senza far parola, le indagini partirono alla lontana, come il messinese che in cerca di fichi parlava di canne. Una domanda qui, una parola buttata là, un'informazione sulle varie qualità di reti, un ammiccamento a destra, una lusinga a manca, un dico e non dico, la rinunzia al canone di un pascolo (i pecorai sanno tutto). Profuse arte e malizia senza scandagliare la faccenda. Tempo ci volle, ma alla fine scoprì ladro e nascondiglio della refurtiva.

Vincenzo, il vicino! Quella manata di letame di Vincenzo. Ah, maiale disonorato! Gliene aveva fatti di favori! Almeno fosse uno bisognoso, almeno si trattasse di un povero Cristo? Niente, vizio di famiglia era. Sputato suo padre, che non lasciava in pace nemmeno i collari delle capre. Vergogna per la sua faccia. Non provava sentura a salutarlo, non aveva rossore in quella faccia? Pùh, per la faccia sua! E proprio con la mia sugna si doveva ungere le mani? Prenderemo provvedimenti a tempo e luogo. Come si dice? Serbare la pezza per quando viene il buco.

La pezza fu ben conservata e il buco si presentò una delle prime giornate d'autunno. Quel giorno il sole stava per tramontare dietro le colline. I primi freddi si annunciavano con una tramontana frizzante che penetrava nelle carni. Ma la pioggia si faceva attendere da un pezzo. La campagna era pronta ad affrontare l'inverno. Sotto gli ulivi era tempo di sistemare le reti. Cosa sistemava don Ciccio? Il sole calava in fretta all'orizzonte e le prime ombre si stagliavano lunghe e con contorni netti. L'uomo affranto insolitamente si attardava seduto su uno spuntone in mezzo al fondo arato di fresco. Aveva acceso la pipa e strofinava tra le dita manciate di terra smossa.

Quasi all'improvviso calò il buio e venne notte. In cielo niente stelle e la luna era uno spicchio d'aglio che compariva a tratti tra le nuvole smagliate. Seduto sullo spuntone umidiccio era come Gesù nell'orto. Quella si presentava come la serata giusta. Era titubante e indeciso. Ma quando pensò ai sacrifici che aveva affrontato per le reti e che avrebbe dovuto confessare il furto alla moglie e di conseguenza a tutto il paese, raccattò ascia e sacco e si levò in piedi. Un'improvvisa determinazione lo spinse a scendere verso mezza costa. Non aveva bisogno di fare attenzione per via del buio: conosceva a menadito viottoli e sentieri. Dietro un costone irto di rovi scantonò in mezzo agli sterpi secchi. Saltò una forra e i suoi piedi sentirono la mollezza della terra arata che si sfarinava sotto le scarpe.

Ora doveva agire con cautela. Con insolita agilità saltò un muretto a secco e si acquattò in un anfratto. L'oscurità si poteva tagliare con il coltello. Era stato imprevidente. Avrebbe dovuto verificare che non ci fosse nessuno. Comunque quello che è fatto è fatto. A pochi metri si scorgeva il biancore della casa. Come un gatto si avvicinò. Montò con un balzo dal terrapieno al tetto. A passi felpati si portò sul frontone. Scagliò lontano un mattone che con rumore metallico finì sulla lastra di zinco arrugginito appoggiata a un albero. Se ci fosse stato qualcuno nei paraggi sarebbe venuto a controllare. I minuti passavano lenti. Tutto era quiete e silenzio. Solo il cuore di don Ciccio batteva a tumulto. Non c'era nessuno. Saltò su un mucchio d'erba secca. Con circospezione aprì la porta che era solo accostata. Un filo di ragnatela si posò sul volto. Socchiuse gli occhi per abituarsi al buio fitto. Addossate al muro intuì i mazzi delle reti. Alla luce di un fiammifero trovò una lumiera a olio. L'accese dopo aver chiuso la porta. Le reti con la vernice rossa erano in mezzo alle altre.

Si avvicinò con impeto alle sue reti. Per un attimo le accarezzò con gli occhi, poi furiosamente tirò fuori tutti i mazzi segnati. Li ammucchiò davanti alla casa. Di corsa, rotoloni giù per la scarpata, spingendoli, trascinandoli, li portò sul suo. Li addossò con affanno a due a due sotto ogni ulivo. Li rassicurò con dei pesanti sassi. Era inzuppato di sudore, ma don Ciccio non avrebbe sentito nemmeno le coltellate.

Quando finì, la luna era scomparsa dal cielo. Ritornò correndo alla casa. Prese una sigaretta e l'accese. Fece alcune tirate e la infilò, con la brace rivolta in fuori, nella scatola dei fiammiferi in modo che l'aria che entrava nella scatola facesse consumare lentamente, come una miccia, la sigaretta. Accostò il rudimentale congegno a tempo a un mucchio di paglia asciutta vicino alle altre reti rimaste. Fu sulla porta e sgattaiolò in mezzo agli alberi.

Quando vide i primi bagliori dietro la collina aveva guadagnato il paese. La brace della sigaretta aveva raggiunto i fiammiferi che erano divampati provocando l'incendio.

Come se si fosse attardato parecchio ad accudire alle bestie nella stalla, al suo ritorno al paese prima di sera, entrò in casa. La moglie brontolava con la bambina per il suo ritardo. Si lavò come sempre al catino dell'acqua e si affacciò al balcone del retro.

- Voi che dite, compare don Nino, è fuoco quello? - chiese al vicino di casa indicando il bagliore dietro la collina.

- Per la Madonna, compare don Ciccillo, fuoco è! - esclamò quello.

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L'olio di Pascalazzo

Il fatto avvenne al tempo in cui i lavori della strada carrozzabile arrancavano sui costoni che serravano la fiumara. Era allora arduo raggiungere il paese, adagiato come un serpente alla confluenza di tre fiumi di pietra. Chi non se la sentiva di affrontare quattro ore di cammino scavalcando i piani dell’Aspromonte, poteva arrivare con la corriera fino al paese più a valle e da lì risalire la fiumara; d’inverno a piedi per provvisori guadi, d’estate con il Dodge a tre assi, un residuato bellico arrangiato con quattro panche a trasporto passeggeri che, secondo i personali orari del guidatore, si avventurava sfiatato su per il greto di ghiaie.

I mezzi di trasporto più usati e affidabili erano i muli e gli asini, che di giorno, di notte e con tutti i tempi facevano la spola con la città per i sentieri delle montagne. Trasportavano otri d'olio d'oliva, unica risorsa del paese, destinati ai mercati della città. Tornavano carichi di pochi altri generi necessari al basso tenore di vita degli abitanti della vallata, che di quel poco s'accontentavano.

Viveva a quel tempo in una catapecchia, con i proventi di scarse elemosine, un tal Pascalazzo, un vecchio infestato di pidocchi da far concorrenza alle galline dei pollai. In paese lo tolleravano per la bonarietà del carattere, ma soprattutto perché, rappresentando egli il più basso gradino, permetteva anche ai più pezzenti di sentirsi ottimamente piazzati sulla carta geografica sociale.

Ogni mattina, di buon'ora, si bardava di cappotto militare e gamella, sprangava la porta della stamberga e iniziava la via crucis quotidiana. Si presentava davanti alle porte senza preamboli e aspettava, con labbro pendulo e occhio smorto, che qualcosa cadesse nelle capaci tasche del cappotto e nella gamella. La gente dava non tanto perché animata da caritatevole spirito cristiano, ma per levarsi di torno l'incresciosa presenza che ricordava da vicino lo stato in cui, per strani ma frequenti casi della vita, ognuno poteva facilmente cadere. Pascalazzo intascava e:

"San Giuseppe vi dia pace, salute e provvidenza".

Anche se le statistiche del tempo dicono poco circa la fonte principale di reddito, le cronache registrano, come abbiamo anticipato, che l’olio d’oliva procurava lo scarso benessere al paese e quindi anche il poco sostentamento a Pascalazzo.

Come la mosca si posa dove più dolce è il miele, così il vecchio ogni giorno si presentava nei frantoi, puntuale come la cartella delle tasse. Il principale fingeva distrazione, i lavoranti riempivano la gamella e Pascalazzo svicolava furtivamente, contento come un cane che scodinzola al padrone.

Durante le annate abbondanti, tutti gli arrangiavano volentieri qualcosa, anche per dare rinfresco alle anime del Purgatorio. Ma c'erano degli anni in cui quattro palmi misuravano mezza canna e di buoni raccolti si sentiva solo parlare nei discorsi dei vecchi al sole. Pascalazzo allora attingeva a tutte le risorse del mestiere, spremeva tutte le ghiandole salivari, si scorticava ai muri, ma se anche si fosse messo a piangere in lingua - evento praticamente impensabile anche per chi nel paese si piccava di solida istruzione - di bagnare la gamella manco a parlarne.

Fu durante una di queste annate d'erba che si sparse la voce, propagata da alcuni sfaccendati per far danno, che Pascalazzo avesse venduto a un commerciante non meglio identificato una quantità d'olio sufficiente a far vivere con agio una famiglia numerosa; con l'aggravante, per giunta, di aver ampiamente approfittato della legge di mercato - che fa salire tanto più il prezzo di un bene quanto più è scarso - pretendendo addirittura la somma più alta che l'acquirente potesse sborsare. Nel processo sommario intentato là per là, l'imputazione senza prove portò, saltando ogni fase dibattimentale, alla condanna e la sentenza senza appello passò subito in giudicato.

Nonostante gli sforzi ai quali ci siamo sottoposti e in seguito alle rigorose indagini che abbiamo condotto recandoci dispendiosamente sul posto, non siamo riusciti ad appurare se e quanto la diceria rispondesse al vero, ma, sulla scorta di quanto accadde successivamente, pare destituita di ogni fondamento. Vero è comunque che per vivere il protagonista della nostra storia vendeva sulla pubblica piazza il poco olio raccogliticcio a commercianti di corto respiro e i proventi della transazione venivano immediatamente convertiti in generi di prima necessità. Ma tant'è, una volta emesso il verdetto, il paese non si poteva esimere dall'applicare la sanzione.

Inutilmente Pascalazzo si presentava a riscuotere quanto, dopo anni di stimata carriera, reputava gli fosse dovuto in virtù di un diritto acquisito. Anzi, si vedeva scacciato in malo modo, cosa che urtava la sua suscettibilità e feriva il suo orgoglio di onorato professionista. La situazione in cui si venne a trovare, stante anche la sfavorevole congiuntura che attanagliava l'economia del paese, presentava risvolti drammatici a causa della carenza cronica di derrate alimentari in cui versava la sua dispensa e per l’assoluta necessità di urgenti approvvigionamenti.

Ma, come in tutte le difficoltà della vita è necessario trovare la soluzione idonea a superare la fase critica, anche Pascalazzo finì per pescare il bandolo della sua matassa. Una mattina si presentò a un frantoio senza gamella e, con la dignità di chi è lontano dal bisogno, si diresse con sicurezza verso la stufa nell'angolo più riparato. I lavoranti in tralice controllarono ogni sua mossa e quando si convinsero che i motivi della visita erano diversi dai soliti, dandosi di gomito si lasciarono andare a battute pesanti al suo indirizzo, convinti di avergli finalmente fatto capire la lezione e che " caro amico, non fare la ringia (smorfia), questa è la casa di chi lavora mangia".

Pascalazzo, degnandoli solo delle sue terga, gesticolava come per dire che aveva mangiato la foglia e non era proprio il caso che si scomodassero a negargli quello che non avrebbe affatto chiesto. Casomai ci fosse stato tra i signori presenti qualche forestiero di passaggio - ritenne doveroso avvertirli -, per loro norma e regola, la visita era dovuta soltanto alla necessità dell'abitudine e, già che c'era, coglieva l'occasione per scaldarsi alla stufa. Detto questo, le mani dietro la schiena come un visitatore interessato, iniziò un dignitoso giro nel frantoio e curiosando esprimeva poco graditi suggerimenti sulla lavorazione. Tuttavia, ai reiterati inviti a dare una mano, fece osservare ai poco rispettosi interlocutori la difficoltà dei rapporti che era solito intrattenere con ogni forma di attività che implicasse fatica.

Controllò le mole che girando stritolavano le olive, verificò la lubrificazione degli ingranaggi del torchio e rimase in estasiata osservazione del nuovo separatore a forza centrifuga, ultima acquisizione tecnica e vanto del frantoio in tutto il circondario. Da uno dei cannelli del macchinario sgorgava un getto di morchia schiumeggiante che finiva in una canala. Dall'altro cannello più piccolo colava quieto il flusso fragrante dell'olio che terminava la sua corsa con lieve gorgoglio nel tino sottostante. Come un intenditore Pascalazzo infilò il dito sotto il getto dell'olio per saggiare la qualità: operazione scontata anche agli occhi di sospettosi osservatori. Quando la mano fu protetta dal suo corpo voluminoso, non solo il dito intinse nel tino, ma tutto il braccio fino all'ascella. Ora, data la quantità e lo spessore degli indumenti di Pascalazzo, è molto probabile che la quantità d'olio impregnatasi nel tessuto superasse abbondantemente la capienza dell'intera gamella.

Difatti, quando si chiuse accuratamente alle spalle la porta della baracca e strizzò con cura la manica, i risultati furono pienamente rispondenti alle aspettative di Pascalazzo. L'olio sottratto con tanta destrezza venne riposto in un’ingrommata giaretta di coccio sulla quale come mascheramento sparpagliò dei rami di ginestra secca. Non soddisfatto ancora, vi accatastò davanti tutta la legna ammucchiata vicino al focolare. Compiuta l'opera di mimetizzazione, si stropicciò le mani ancora unte assaporando con gusto e orgoglio l'aroma dell’olio.

L'indomani mattina l’operazione fu portata a termine con identico risultato in un altro frantoio e, data la brillante riuscita, Pascalazzo pensò di apportare delle migliorie tecniche curando alcuni dettagli inerenti allo spessore e alla capacità di assorbimento delle maniche: le imbottì con tela di sacco e rattoppò i gomiti con pezze di lana. Un lavoro perfetto!

Con quegli accorgimenti i risultati furono talmente lusinghieri che si propose di perpetuare per tutta l'annata gli assaggi. A conti fatti, dopo qualche tempo cominciò a considerarsi un solido professionista del ramo e un benestante di non disprezzabile calibro. Mutò di conseguenza atteggiamento nei rapporti con il prossimo e si munì di un nero cappello di feltro come si conveniva a un uomo del rango sociale cui personalmente si ascriveva.

Frattanto, la fama del ritiro irrevocabile dall'attività questuatoria di Pascalazzo si era sparsa in tutto il paese con l'effetto di far tirare un sospiro di sollievo ai frantoiani, ma anche con il risultato di insinuare l'ombra del sospetto nei più scettici. Non che ci fossero stati seri indizi per dubitare della voce, ma interrogativi sorsero sulla fonte di sostentamento del soggetto in causa, essendo proverbiale la sua nullatenenza.

La decisione di avviare indagini senza dare all'interessato alcun avviso fu presa una sera all'osteria dove, nonostante fosse un ambiente poco confacente al suo ministero, il parroco trascorreva le serate in piena beatitudine sotto l'ammirato sguardo della perpetua. Il reverendo padre alla fine dei lavori tolse la seduta con queste profetiche parole:

"Sospettare non è cosa divina, ma chi sospetta indovina."

Fu così che, in adempimento del mandato ricevuto dall’alto consesso, in capo a un paio di settimane provetti inquirenti condussero a esito l'inchiesta. Alcuni tallonarono Pascalazzo in tutti gli spostamenti, come si conviene a segugi di razza, altri vagliarono il comportamento dell'indiziato tentando di decifrare da ogni mossa o parola i segni della colpevolezza. Furono però più fortunati due celebrati nullafacenti che stavano appostati in permanenza dietro la sua baracca e dalle sconnessure della porta ebbero modo di osservare i momenti più salienti dell'operazione di recupero dell'olio, prima dentro la gamella e da questa nella giara di coccio.

Quasi non credevano ai loro occhi. Era una trovata talmente geniale che ciascuno dentro di sé considerò se fosse o meno il caso di divulgare a più vasto pubblico la scoperta. Cosa che purtroppo fecero spinti da obblighi deontologici e da irrefrenabile voglia di assurgere agli onori della cronaca per essere stati loro gli svelatori l'arcano. Ma a superare ogni dubbio fu il prepotente bisogno di aggiungere ricami sull'ingordigia attribuita a Pascalazzo che, stando alla loro relazione dettagliata, aveva già riempito addirittura due giare e al momento della scoperta era intento a strizzare la più recente refurtiva in un secchio molto capace.

Il giorno seguente l'ignaro Pascalazzo fece il suo ingresso nel frantoio salutando con signorile scappellata gli operai. Prese posto tranquillamente sulla panca accanto alla stufa come padrone e non s'avvide che l'occhio arcigno del padrone vero, uomo notoriamente burbero e manesco, già informato la sera prima, lo teneva da lontano sotto tiro costante. Più sicuro che mai, il vecchio si levò le scarpe e accostò i piedi al metallo arroventato della stufa.

Il padrone frattanto gli si era avvicinato con bottiglia e bicchieri.

"Buona venuta, Pasquale."

"Buon giorno a voi, don Peppe", rispose Pascalazzo.

"Fa freddo oggi", continuò l'altro.

"Pare che si metta male, don Peppe."

"Già, avete ragione. Si sta mettendo proprio male", con malcelata ironia annuì il padrone. "Bevetevi una volta di vino, Pasquale."

"Dio ve ne renda merito. Grazie assai."

"Bevete pure quanto vuole il vostro cuore, che intanto vado a vedere cosa combinano questi sfaticati" e indicò i lavoranti con il pollice rivolto alle spalle.

Con la bottiglia a disposizione non occorse molto a Pascalazzo per ridursi come a tre ore di notte. Quel vino generoso lasciava tra lingua e palato un senso di piacevole insoddisfazione. Era uno di quei vinelli che scendono come acqua, ma alla fine segano le gambe. E, tra l'altro, ci sembra superfluo fornire ragguagli al lettore sulla proverbiale capienza d’ingurgito di Pascalazzo. Bevuto un bicchiere, lo posava sul tavolino di legno, si scaldava le mani, lo riempiva di nuovo e di getto lo tracannava.

Quando si ritenne sazio, e ce ne volle, considerò giunto il momento di passare all'azione. Rideva con le sue labbra sporgenti tra i torchi e le ceste Pascalazzo e, reso più sicuro dal vino, si avvicinò con scioltezza al tino dell'olio. Immerse, stando pecoroni, braccio e manica, ma al momento di ritrarsi si sentì afferrato per il collo da una mano di ferro che lo spinse con la testa dentro il recipiente.

"Venite, venite qua!" urlava don Peppe. "Correte che ho preso il topo che si mangiava tutto l'olio nostro."

Gli operai accorsero increduli. Don Peppe tratteneva Pascalazzo in quella posizione poco dignitosa e gli sferrava poderosi calci sul didietro che facevano sobbalzare il ladruncolo come preso dalla febbre terzana.

"Posalo tutto l'olio mio. Cagalo tutto!" urlava con gli occhi strabuzzati.

Quando riuscirono a levarglielo dalle mani, Pascalazzo era provato nel corpo per le botte subite e l'olio ingurgitato, ma soffriva di più nello spirito per il timore che, se avessero ispezionato la baracca, sarebbe saltata fuori la refurtiva accumulata con tanta fatica e naturalmente sarebbe caduta sotto sequestro.

Il padrone inveiva ancora, trattenuto senza molta convinzione dai lavoranti. Urlava insulti in palese, ma, stemperata la rabbia, rideva di nascosto scuotendo la testa.

Sarebbe interessante poter riferire qualcuno degli improperi rivolti a Pascalazzo, ma è da supporre che siano appartenuti a un lessico andato smarrito quando la strada carrozzabile arrivò al paese e insieme alla polvere sollevata dagli automezzi saltarono via i colori e gli spigoli più aspri dell'idioma locale. Purtroppo non siamo neppure in grado di riferire i sinonimi più eufemistici di quelle saporite contumelie.

Comunque, quando furono stanchi di strapazzare il poveretto, padrone e operai agguantarono Pascalazzo e lo spogliarono integralmente corampopulo. All'operazione presenziarono molti attirati dallo schiamazzo e altri capitati per caso, ai quali non parve vero di assistere all'insolita farsa in qualità di pubblico non pagante.

Pascalazzo, nudo come un verme, se ne stava vicino alla stufa. Con le mani occupate a nascondere le vergogne, scalciava in tutte le direzioni nel tentativo di tenere alla larga la moccioseria. Intanto avevano spremuto sotto il torchio gli indumenti del disgraziato. E, quale la meraviglia, quando videro sgorgare un flusso lento e costante d'olio, recuperato in un apposito recipiente! Nell'incredulità generale, don Peppe indicava con mano la quantità e invitava la gente ad avvicinarsi per verificare di persona.

La storia finisce a questo punto senza fornire ulteriori ragguagli sul seguito. Sembra opinabile, tuttavia, che Pascalazzo sia tornato con la gamella davanti ai frantoi.

Con il passare del tempo la vicenda fu pressoché dimenticata da tutti. Fa naturale eccezione qualche vecchio che fino a qualche anno fa ricordava ancora e che è stato preziosa fonte dei fatti narrati. Ma a noi piace pensare che Pascalazzo abbia continuato indomito a escogitare sempre nuove trovate senza essere scoperto. Purtroppo non possediamo elementi sufficienti per affermare che ciò sia realmente accaduto.

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Il palazzo di Monte Scarrone

La cima di Monte Scarrone si erge maestosa fra le colline. Sul dorso della montagna, a oriente, sotto l'imperversare dei venti e dove più implacabile batte il sole, rovi e perastri la rivestono di un manto impenetrabile; a occidente, si vedono dalla valle sottostante stenti ulivi tra muri a secco e sassi.

All'ombra del Monte i miei avi trascorsero molte stagioni tra i ceci piantati sotto gli alberi e il ruminare delle vacche sull'aia. Insieme a loro molti altri popolarono i cascinali sparsi per la vallata e all'alba volgevano sguardi indagatori alla montagna e alle divinità dei raccolti nascoste nei suoi anfratti.

I giorni trascorrevano lenti e i figli diventavano padri e i padri nonni. Le generazioni si incorrevano e il tempo rodeva la vita di ognuno come i passi divoravano la terra dei sentieri tracciati tra gli ulivi. Finché un giorno le oscure divinità lasciarono il monte per inseguire altri raccolti e la vallata conobbe l'abbandono.

E proprio in quella valle desolata, dove ormai l'erba cresceva sui viottoli e nelle crepe delle case, mi spedirono in convalescenza, nel nostro vecchio cascinale, quando in gioventù contrassi la febbre maltese per aver mangiato formaggio di capra infetta da un carbonaio d'Aspromonte.

Dormivo in una stanza riattata e più spesso nella frescura della stalla. A giorni alterni la febbre mi prendeva, ma ormai con il passar del tempo era diventata leggera come la carezza di una fiamma lontana. Mi piaceva allora indugiare all'ombra di un roseto incolto a osservare la frenesia delle formiche che avevano eletto dimora sotto i grandi lastroni di pietra del vecchio forno.

Era primavera piena e l'aria della montagna stava combattendo l'ultima battaglia con i brividi che veloci percorrevano la schiena non più sudata e sempre più deboli mi facevano sussultare come per un singhiozzo appena sospirato. La febbre scemava in fretta e cancellava il pallore dalle guance scavate e il fuoco dagli occhi.

Dalla casa oltre l'aia si scorgeva nascosto dai rovi il tetto di una casupola ancora abitata. Ci viveva Paolo, pastore mezzo storpio che madre natura aveva dotato di procace immaginazione e lingua sciolta. Due occhi rotondi occupavano gran parte della faccia paciosa con sopra stampato un eterno sorriso tra il beffardo e lo stupito.

All'alba mi dava voce, prima di portare le bestie al pascolo. Al tramonto, di ritorno, mi riforniva d'acqua. Nelle fredde sere d'inverno, quando il vento faceva scricchiolare paurosamente i rami dell'ulivo gigantesco sopra il tetto, volentieri si intratteneva a parlare con me, della guerra e del re, delle cose del mondo che non aveva conosciuto e dell'America, dove forse portavano quei bastimenti che lontano vedeva incrociare nello spicchio di mare, là in basso tra le marine. Ascoltava per ore seduto con le gambe incrociate e assorbiva le parole come pioggia sulla terra arsa delle filese.

Durante quelle sere talora mi parlava del sogno che per anni aveva segretamente accarezzato. Un sogno impossibile come quello del suo vecchio che passò una vita a cercare, senza risultato, il metodo di convertire il rovo in vite.

Paolo avrebbe costruito un palazzo sulla cima di Monte Scarrone e in quel palazzo ci avrebbe portato la sposa. L'avrebbe costruito in pietra, con il portale alla turca e dieci finestre rivolte verso il mare. Cento lumi a illuminare le cento stanze che si potesse vedere anche di notte dai paesi della marina. E un banchetto di cento capre per festeggiare gli sponsali con la sua regina delle ginestre, carica d'oro come una Madonna e bella come il sole.

- Quanto dite che mi costerà l'abito bianco?

- Ti vendi dieci pecore, Paolo, e con quello che ti danno le compri abito, veletta e pendagli d'oro.

Assecondavo le sue fantasie compenetrandomi - forse avevo bisogno anch'io di sogni - e rispondevo alle domande con grande serietà. I suoi occhi brillavano al riverbero del fuoco. Era felice.

Non così facevano quelli che incontrava durante il giorno. Lo dileggiavano continuamente e lui lasciava fare con il suo sorriso enigmatico e remissivo. Ma con le donne reagiva. Alle contadine rifiutava profferte scherzose di matrimonio. E se lo provocavano con domande maliziose rispondeva con facezia.

- Quando vi sposate, massaro Paolo?

- Quando avrò costruito il palazzo sulla punta di Scarrone. E se voi non vi comportate bene non v'invito al matrimonio.

- E noi non vi facciamo regalo!

- Voi regalo non potete fare lo stesso: non avete manco mutande. O non le portate per qualche altro motivo?...Pronta all'uso con il primo che passa.

Oppure.

- Quanti anni avete, Paolino?

- Con tanti e altrettanti e la metà di tutti quanti più uno sono cent'anni. E se vi paiono tanti mettetevi una mano dietro e l'altra davanti.

- Dove andate, Paolo stolto?

- Dritto dritto con questa punta, lì dietro nel vostro vacante a fare profitto tra quelle naticazze di culo.

Un giorno al tramonto di un sole che mi aveva lasciato negli occhi l'alone di fiamma della cresta delle colline, sentii grida concitate. Dalla fontana a fondovalle mi giungeva un continuo strepitare e invocazioni disperate. Mi levai dal giaciglio di paglia pesta e cominciai a scendere per il viottolo verso il vallone. La testa mi girava, ma bene conoscevo il sentiero che portava avvitandosi in stretti tornanti fino alla fontana e agli orticelli irrigati dagli scoli.

Avvicinandomi lo strepito si faceva più alto e l'eco lo riportava ripetuto e ingrandito, ma non permetteva di capire le parole. Era la voce di Paolo che sovrastava le altre ed era disperata tanto quanto le altre erano di scherno spietato.

Paolo sbraitava come un dannato. "L'avrà morso qualche bestia", pensavo. "O sarà caduto in qualche forra e c'è gente che si diverte a godersi lo spettacolo".

Arrivai allo spuntone che sovrasta la fontana. Lo vidi che si dibatteva nell'acqua mezzo nudo. Quattro furie gli erano addosso ridendo e starnazzando. Il malcapitato in mano a quelle arpie urlava come uno scannato e si dibatteva mulinando gambe e braccia. Le donne scarmigliate avevano nei gesti e negli occhi qualcosa di ferino.

- State fermo, Paolino, che non vi facciamo niente. - diceva quella che appariva la più anziana. - Vogliamo solo vedere come vi ha fatto vostra madre!

Il disgraziato guazzava in mezzo alla pozzanghera al limite ormai delle forze. Gli avevano levato la camiciola e dagli squarci della maglia di lana si intravvedeva un lungo graffio rosso tra la folta peluria. Le donne erano sempre più eccitate. Paolo urlava piangendo.

- Lasciatemi, grandi troie. Aiuto, cristiani! Aiuto, cristiani!

- State buono, Paolino.- gli dicevano

- Vediamo solo se siete buono per quella cosa lì.

Gli stavano sfilando i pantaloni. Paolo teneva le mani avvinghiate alla cinghia e scalciava. Al solletico mollò la presa. Dalle mutande aperte sul davanti si vide un sesso rattrappito e scuro che la peluria faceva appena scorgere, ma che i movimenti inconsulti esponevano allo sguardo concupiscente ancorché camuffato dallo scherzo feroce delle donne.

- Puttane, puttane. Aiuto, cristiani!

Le donne additandoselo ridevano e non lo lasciavano libero per paura della sua reazione. Intervenni dall'alto dello spuntone e scagliai loro addosso, anche a Paolo, sassi, erba, terra raggrumata, tutto quello che mi capitava a portata di mano ridendo fino alle lacrime mentre gridavo loro:

- Perché non spogliate me? Venite che ve lo faccio vedere io il crea popoli. Ce n'è per tutte!

Le streghe si videro scoperte e dopo un attimo di esitazione per la sorpresa scapparono guaendo come cagne all'improvviso private del cane nella monta. Infilarono il viottolo che scendeva a valle e in mezzo al canalone corsero per un pezzo fino a scomparire inghiottite da rovi e cespugli.

Paolo alla meno peggio si ricompose. Gli avevano ridotto i panni a brandelli. Lentamente come mi sostenevano le forze messe a dura prova per l'ilarità della situazione scesi alla fontana cercando la strada più agevole.

Quando il poveraccio mi scorse emise un grugnito cavernoso. Vide gli orci abbandonati dalle donne. Ne fece scempio e quando dei recipienti di terracotta rimase solo una minutaglia di cocci gli levai il sasso dalle mani. Mi guardò dritto negli occhi, poi smaniando si accoccolò per terra in un angolo asciutto.

- Che ti stavano facendo, Paolino?

Le parole mi uscivano di bocca soffocate dalle risa. Mi saettò uno sguardo che mai gli avevo visto. Di scatto si levò e scappò a rovina attraverso i solchi dell'orto come una bestia ferita che malamente tenta di sottrarsi all'assalitore.

Non parlammo mai di quest'episodio durante le sporadiche e fugaci occasioni di incontro. Anzi non parlavamo affatto. Mi accorsi che mi evitava. Mi si accompagnava soltanto se non poteva fare diversamente e sempre in silenzio. Da lontano mi scorgeva e scartava dal sentiero infrattandosi nella boscaglia. "Qualche volta per nascondersi si ammazza", pensavo.

Di tanto in tanto scoprendolo dietro i cespugli, da lontano gli gridavo:

- Gli amici miei non valgono due lire. E' vero, massaro Paolo? Avete lagnanza che vi tenete alla larga?

- Con voi non si può avere lagnanza: siete un uomo degno e meritevole. Passa fuori, Teresina!

Si rivolgeva urlando quasi con ira ad una bestia. Il privilegio del dialogo sempre a distanza di sicurezza era finito.

L'estate passò in fretta e con lo scemare dei caldi la febbre mi abbandonò definitivamente. Decisi allora che era giunto il tempo di fare ritorno in paese. Riposi le mie cose in una sacca e mi fermai a guardare con altri occhi il cascinale e la vallata teatro e testimoni della mia convalescenza.

Dietro l'aia le tegole della catapecchia di Paolo fumavano quella mattina come tutte le altre. Aprii la sacca e ne tolsi un paio di calzoni e delle scarpe ancora in buono stato. Ne feci un involto e imboccai lo stretto viottolo che si perdeva dietro una siepe di rovi. Era la prima volta che andavo a trovare in casa il compagno di quell'inverno che rivivevo ora come un sogno agitato.

Chiamai dallo spiazzo. Nessuno rispose. Nell'oscurità dell'unica stanza si scorgeva da fuori il fuoco acceso e sul tripode il caccamo del latte. Nel recinto dello stazzo le pecore ruminavano lentamente e le poche capre macchiavano di nero la massa compatta e biancosporca degli ovini. Chiamai di nuovo in modo più rassicurante avvicinandomi alla porta.

- Sono qua. Sono qua... Che volete?

Paolo era seduto nell'angolo più buio dello stanzone, ma più che seduto sembrava accovacciato nella posizione di all'erta tipica dei pastori.

- Massaro Paolino, che si fa? Sono venuto solo per salutarti: oggi me ne vado. Torno al paese: se hai bisogno cosa...

Si levò da quella posizione e venne avanti nel triangolo sghembo di luce della porta.

- Ve ne andate?... Allora tanti saluti!

- E' così che si trattano gli amici? Ha ragione allora la gente a dire che sei stolto.

- Statevi zitto, fatemi il favore!

Imbarazzato si teneva le mani e mi guardava di traverso come un bambino imbronciato.

- Se non ti offendi: ti ho portato questi pantaloni che sono nuovi. E queste scarpe. A te possono servire.

Gli porsi l'involto che prese con titubanza. Lo svolse, osservò il contenuto e misurò a occhio scarpe e calzoni.

- Le scarpe fanno sempre comodo. I pantaloni sembrano un po' lunghi, ma vanno bene lo stesso.

Dopo un attimo di riflessione:

- Grazie, ma non posso accettare.

E me li porse.

- Paolo, che fai complimenti? Queste cose tra noialtri! Ma va'. Prenditeli. E se incontri la fidanzata e ti vede male combinato? Prendi, toh!

Riprese l'involto e lo poggiò su una cassapanca.

- E voi credete che io posso avere una fidanzata? Allora non mi guardate? Ogni tanto, sotto questi alberi, con gli animali, devo pensare a queste cose. Devo, capite. Per sentirmi cristiano. Come voi, come tutti. E ogni tanto parlo pure da solo, o con le capre che sono più intelligenti delle pecore. La vedete quella là? Quella con il corno rotto. A quella gli manca solo la parola. E quell'altra, la renisca, è affettuosa come un'amante. Le bestie non sfottono. E sapete perché? Vicino ai rognoni hanno un'animella di bontà. E attaccata al fegato hanno il fiele che è dolce come miele. Diventa amaro solo al contatto con la mano dell'uomo. Mah, sapete perché non sfottono? Non sanno ridere. Non sanno ridere alle spalle della gente. Sono serie. Voi direte che questi sono discorsi di pecoraio...Vostro nonno buonanima, galantuomo e massaro, diceva che noi siamo aria, terra, vento, pure erba. Le sue parole non le capivo, ma sentivo che erano giuste e sacrosante. Un giorno mi ha pure detto che noi pagavamo la nostra natura con l'ignoranza. Noi siamo stolti, puzziamo di lacciata e a furia di parlare solo con gli animali non siamo più capaci di parlare con i cristiani: non ci può vedere nessuno! Però ogni tanto penso di essere superiore a tutti e le bestie mi danno ragione.

Dopo un attimo di esitazione per riprendere fiato, continuò con voce sommessa:

- Un pecoraio stolto...Che volete? C'è chi è nato rotondo e chi quadrato. Solo che quando sono nato io il tempo era sereno e subito si è girato a burrasca... Andate al paese. Tornate da dove siete venuto.

- Beh, allora fatti animo, Paolo. Un giorno di questi passo a trovarti.

- Non vi scomodate, non c'è bisogno... Questo inverno credevo che anche voi foste uno come me. Stavate solo, nella catapecchia. Pure vostro fratello quando veniva vi buttava il tabacco da lontano. Mi avevate detto tante cose belle e stavamo seduti sulla stessa pietra. Vi comportavate così perché avevate bisogno di compagnia e in questo deserto c'ero solo io. Me ne sono accorto dopo. Voi non siete né pecoraio né massaro e tanto meno come me. Siete come gli altri e vi comportate come i vostri simili. E' con loro, con i vostri pari che dovete praticare!

Mi dispiaceva lasciarlo così, ma lì per lì non trovai parole. Uscii sullo spiazzo e quando fui sul viottolo gli gridai:

- Se ti serve una mano per il palazzo di Scarrone, sono a tua disposizione.

- Voi non mi giovate per quel lavoro lì. Ci vogliono fior di ingegneri e architetti. Che dico? Geometri ci vogliono. Mastri e capimastri di prim'ordine. Il progetto è pronto. Cento stanze, trentatré per piano e l'ultima in terrazza per guardare la luna.

Da quel giorno non lo vidi più. L'inverno che seguì fu rigido da ricordare. La neve venne abbondante e dopo la neve piogge gelide che pettinarono le campagne. Paolo rimase sempre nella baracca sperduta. Solo di tanto in tanto andava per provviste al paese dietro il Monte. Là gli davano da bere per poi beffarlo da ubriaco e lui non si risparmiava.

Una notte senza luna tornava che aveva bevuto più del solito. Saliva per l'erta sbandando sotto la pioggia. Lo strapiombo cominciava a un passo dai suoi piedi. Forse cantava Paolo e cadde tra le ginestre e i rovi. Rotolò tra i perastri fino a valle. E mentre cadeva forse vide in cima a Monte Scarrone un grande palazzo illuminato. Davano una gran festa. E davanti al palazzo tante carrozze in attesa con i cocchieri in serpa.

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Il viaggio e la partenza

Si salutarono senza parlare per nascondere la commozione. Prese i bagagli e s'incamminò verso la fermata dell’autobus. Percorse la strada diritta, attraversò lo slargo e imboccò la strettoia in discesa verso la piazza. Il vecchio aveva acceso la pipa ed era rimasto con l'avambraccio appoggiato al vano della porta fin quando non lo aveva visto sparire alla prima curva, dietro l'angolo della casa gialla.

"No pa’, non venire alla stazione, voglio andarci solo." gli aveva detto. "Non facciamo drammi. Non voglio manco che mi accompagni all’autobus. Preferisco che ci salutiamo qui."

"Ma almeno per i bagagli... che ci vuole? Li carichiamo in un niente sulla macchina."

"Ti ho detto di no, per favore. La borsa e il sacchetto dei panini: che vuoi che sia?"

"Fa’ come ti pare a te."

La voce del vecchio era incrinata.

"O pa’, non cominciamo! Tra un paio di mesi forse ci vediamo di nuovo. Ora salutiamoci. Statti bene."

Prese l’autobus della mezza. Tra i pochi viaggiatori non conosceva nessuno, tranne l'autista, un vecchio compagno di scuola. Durante il viaggio si scambiarono parole e sigarette: il divieto di fumo era puramente teorico.

Con stridio di freni si fermarono al centro di una piazza coperta dai resti del mercato. Mancava quasi mezz'ora alle due del pomeriggio. L’autista avrebbe voluto portarlo alla stazione, solo per i bagagli. Ringraziò più volte e a fatica riuscì a respingerne l’insistenza.

Il treno sarebbe partito alle tre e diciotto. Aveva tutto il tempo di fare un giro. S'incamminò senza fretta; prese un caffè in un bar della piazza del duomo; fumò una sigaretta seduto al tavolino sotto gli alberi tropicali che avevano disseminato le mattonelle di bacche gialle; osservò il verde fitto del fogliame; volse più volte gli occhi all'azzurro mare dello Stretto che spuntava tra le case. Finì per annoiarsi, ma era ancora presto per andare alla stazione.

Con la borsa in mano imboccò la strada in falso piano che partiva dal duomo. Sul sagrato lesse in greco la frase di San Paolo sull'arco del portale. Provò a tradurre a occhio: "Alla fine del nostro girovagare siamo giunti a Reggio".

"Alla fine anche noi siamo giunti, ritornando al luogo di partenza." pensò.

Decise di svoltare a sinistra scendendo sul corso e di avviarsi verso la villa comunale. Camminò con indolenza per un centinaio di metri all'ombra di case costruite agli inizi del secolo, dopo il terremoto. Le serrande dei negozi abbassate; i passanti rari nella controra; i pochi autobus gialli, che si avventuravano sull'asfalto liquefatto del pomeriggio, una desolazione.

Entrò nella villa comunale dal cancello laterale. Finalmente trovò un po' di fresco. Si fermò all'ombra di un gigantesco albero tropicale, vicino alla fontanella. L’acqua defluiva in un pantano verdastro dove galleggiavano due anatre spiumate. Per il caldo anche le ninfee della pozza erano stente. Si rinfrescò e bevve inzuppandosi la camicia con l'acqua che colava per il collo. Attraversò lo spiazzo e scese i gradini sulla Via Marina.

La stazione era a poche centinaia di metri. Sul tetto dei vagoni fermi sui binari aleggiava aria fluttuante: un forno a cielo aperto. Nel grande piazzale la statua di un Garibaldi appiedato volgeva vuote pupille all'Aspromonte lontano. Ricordò le dicerie che circolavano sull'Eroe dei Due Mondi. I capelli alla nazarena nascondevano un orecchio mozzato, opera del morso di una donna restia alle sue foie, o forse lavoretto di un marito cornificato, oppure, secondo altra versione più accreditata, omaggio di un allevatore di bestiame per un tentato furto di cavalli in Argentina, punizione consueta per agli abigeatari colti sul fatto.

Allo sportello prese il biglietto. Si diresse attraverso il sottopassaggio al binario sei. All'ombra della pensilina si fermò a rifiatare. C'era qualche viaggiatore e un caldo che non teneva conto della brezza marina. Una volta si vedeva il mare sul quale aleggiava eterna foschia. Ora impediva la vista un muro male intonacato che trasudava salnitro.

Si sedette in attesa sulla panchina di marmo. La fontana secca, la stazione deserta. S'alzava dai binari un acre odore di disinfettante, o almeno credeva. Prima o poi avrebbe chiesto a qualcuno del mestiere. Lente manovre di vagoni merce, il pigro passaggio di un treno locale: si fermava il necessario per far scendere rari passeggeri. La voce metallica di un altoparlante diffondeva pigre chiamate di servizio, qualche arrivo, poche partenze.

Attraversavano i binari manovratori con bandierine una volta rosse. Parlavano con serietà troppo ostentata per essere vera. Tutta gente del posto. Lo capiva dalla cadenza del dialetto smussato, cittadino.

Lentamente arrivò il treno: soltanto tre carrozze. Altre si sarebbero aggiunte a formare il lungo serpente di ferro alla stazione di Villa. Come tutti i treni che partivano da quella stazione e che all’arrivo avrebbero portato nomi altisonanti di "Treno del sole", "Treno dell'Etna". Per tutti i viaggiatori comunque era sempre stato il treno delle tre e basta.

Salì sulla carrozza. Frettolosamente trovò il posto. Mise i bagagli sulla rete e scese di corsa per non rimanere soffocato dal caldo stagnante. Il treno era rimasto sotto il sole tutto il giorno: dentro si potevano cuocere le uova. Sedette di nuovo sulla panchina e accese l'ennesima sigaretta. Carrozza trenta: il vagone delle cuccette aveva sempre portato quella cifra, numero troppo alto rispetto alle carrozze. Un quadrato di carta male incollato al vetro.

Sudore e caldo a parte, tutto gli sembrava comodo e tranquillo. Poca gente, cuccetta prenotata, acqua fresca, ben precisa la destinazione, una casa che l'aspettava, un libro da leggere per ammazzare il tempo a gambe allungate. Questo era viaggiare. Non come la prima volta che era partito da quella stazione.

Era successo a settembre, tanti anni prima. Aveva preso il treno alla fine di un'estate torrida. Nel torpore del pomeriggio la stazione era impregnata di quell'indefinibile odore caratteristico, esaltato dal caldo e dall'atmosfera della gente in partenza. Una folla enorme s'accalcava lungo i binari in attesa. Chi per partire, chi per accompagnare amici e parenti. E quanta gente c'era sui marciapiedi e sotto le pensiline! Tante volte aveva assistito a quella scena per avere accompagnato amici a prendere il treno, portando loro valigie e bagagli. Li aveva salutati senza quel nodo amaro che provava allora che il protagonista della partenza era lui. Partire, o come qualcuno avrebbe preferito pomposamente dire, forse con il segreto compiacimento che fosse toccato ad un altro, "era arrivato il suo turno".

Non aveva voluto nessuno, per non farli soffrire alla sua partenza e per non vedere suo padre costretto al pianto. Era la prima volta che andava via sul serio e voleva evitare la sofferenza del brusco distacco. La prima volta che si parte è come lacerarsi di carne. "Partire è come morire per la gente", gli aveva detto Cirivillino; poi avevano brindato. Il vecchio Cirivillino era stato a suo modo filosofo.

Ricordava con angoscia partenze laceranti e la serenata di addio di Gilormo la notte prima di partire per l'America. Le note struggenti della fisarmonica strappavano le unghie al cuore e tutti dietro le imposte chiuse quella notte trattenevano le lacrime. Di solito, quando si diceva che uno partiva, era inteso che stava andando in campagna, tutt'al più in un paese vicino o in città. Se vogliamo, a militare. Partire per l'America era morire ancora in vita, non tornare più. Andare al nord significava andare lontano, incontro a un incerto avvenire, ma non era l'America. Partire significava sempre spartire. Da quel momento di frattura nulla era più certo, era un addio alla vita trascorsa, agli affetti, alla propria gente.

Aveva accompagnato molti amici e conoscenti alla stazione. Chi parte gradisce vedere tante facce amiche per fissarle bene nel ricordo e per ritardare il più possibile il momento in cui si troverà solo. Al contrario, lui non aveva voluto nessuno, forse per pudore mal inteso e per restare solo a crogiolarsi su quel grumo di tristezza. Presto però se n'era pentito.

In mezzo alla calca accecata dal sole e dal sudore era riuscito a conquistare uno dei pochi posti non prenotati. Di fronte a lui c'era un vecchio. Si sedette subito sull'altro sedile libero. Non si sentiva stanco, anzi, voleva stare affacciato al finestrino per godersi il movimento dell'esterno. E, seduto in quello scompartimento con il giornale in mano, tutti i ricordi possibili tornavano a galla, ribollivano nella confusione del momento e riaffioravano in tumulto. Momenti che da tempo credeva dimenticati si accavallavano turbinosamente, quasi lottando fra di loro per avere il sopravvento.

Si vide sui roccioni dell'Aspromonte, in quel paesaggio brullo che tanto aveva amato non sapendo il perché. Poi gli scivolarono davanti agli occhi le viuzze dell'infanzia percorse a piedi nudi, misurate a palmo a palmo, con l'olio sul pane che colava lungo le braccia. Rincorse le scapicollate per le discese di creta, scivolose d'inverno e polverose d'estate.

Rivisse per un attimo la magia del primo giorno di scuola. Si ricordò della delusione quando la maestra lesse l'elenco e il suo nome mancava: non era ancora in età. Era stato accettato come clandestino per un favore alla famiglia, consueto al tempo. Quindi niente appello e niente libro.

Risentì l'odore dei vecchi banchi di legno di quella classe raccogliticcia in un'aula di fortuna. Rivisse le lezioni marinate per andare a caccia di nidi o in esplorazione dei crinali più alti da dove il paese sfumava per la lontananza in fondo alle fiumare. Con acrimonia ricordò quella maestra dal petto prosperoso che poco o nulla gli aveva insegnato, se non come barare, come fingere di avere fatto i compiti e soprattutto come difendersi con astuzia dalla sua violenza rancorosa per essere stata confinata dal marito geloso, lei cittadina belloccia del capoluogo, in quel paese di montagna.

Ricordò le botte da orbi e i compagni di allora. Quelli che ancora vivevano e quelli che non c'erano più. Pietro, crollato nel fiore della giovinezza, con quel sorriso triste e le labbra annerite dal male che da dentro lo rodeva. Totò, tradito dal cuore impazzito mentre tornava a casa. Giorgio, che volò, angelo senza ali, per farla finita sui lastroni di una strada ai più ignota. Sandrino, ragazzo di bontà, divorato da se stesso in una stanza dalle pareti azzurre. E altri, tanti altri ancora di cui aveva perso le tracce.

Poi la lenta crescita, le estati al sole della mietitura, gli inverni freddi con i geloni ai piedi, il calore delle feste povere e gli ingenui sogni d'avvenire. In ultimo, il ricordo cocente della mamma sul letto di morte, con le mani legate dal rosario e le candele attorno. Tre giorni durò l'agonia, tre giorni in cui ogni filo d'erba era un grosso appiglio di speranza. Dopo venne l'estate con il sole giallo cupo, il grano rotto sugli steli, le ginestre svilite e un cratere di carne viva che fioriva nel petto. Lentamente anche quella ferita dolorosa rimarginò, ma lasciò una profonda cicatrice nell'anima.

Quel lontano settembre della partenza l'estate stava per finire e già c'era qualche avvisaglia d'autunno su al paese. In campagna era tempo di lavori, gli alberi si preparavano per il raccolto delle olive. Lui voltava pagina. Tutto stava per cambiare: andava al Nord.

Era tanto giovane allora e dimostrava meno della sua età. Ne soffriva un po' per via che le femmine che raccoglievano olive lo stuzzicavano: con lui non correvano pericoli, era ancora un bambino. Gliel'avrebbe fatto vedere, anche se era ancora presto per andare a donne. Ma non potevano sapere che c'era stato lo stesso una volta, alla festa di Reggio, insieme con altri, alle baracche sotto la stazione. Proprio lì a ridosso del muro, oltre l'ultimo binario. Era stata la prima esperienza con la conseguente cocente delusione per quell'amore mercenario e sbrigativo.

Sul treno aveva sperato di incontrare facce inconsuete che gli dessero l'ebbrezza della novità, ma lo scompartimento era quasi tutto riservato. C'erano solo lui e il vecchio, affacciato al finestrino del corridoio, intento a salutare.

All'improvviso il treno si era mosso. Quello che in quell'istante gli salì dallo stomaco era un pugno di sale. Lacrime mal trattenute gli sporcarono il volto di una patina d'unto. Inghiottì a fatica saliva con la gola bloccata. Usciti dalla città, tutto era cominciato a passare. In fondo - si disse - cosa perdeva? Andava incontro al suo futuro. Parola grossa, ma tutto allora gli sembrava grande e bello, oltre al dolore per la partenza e per l'abbandono di persone e cose care.

Il paesaggio che scorreva via dal finestrino, fuggendo all'indietro, attraeva, affascinava, stordiva. Il vento scompigliava i capelli e asciugava le lacrime ai lati degli occhi. Un velo di nebbia avvolgeva d'opaco i contrafforti delle montagne in lontananza. Ogni tanto le folate diradavano la foschia. Dall'altra parte, sotto il sole al tramonto, il mare azzurro sciabordava sulla spiaggia, lambiva la rena con la schiuma lattiginosa e si ritirava monotono come il rumore delle ruote sui giunti delle rotaie.

"Io vado a Torino. E voi?" chiese al vecchio che fumava la pipa seduto di fronte.

Voleva parlare, non sentirsi solo, scacciare con le parole lo sconforto. L'altro lo guardò come per misurarlo mentre il treno li faceva lentamente sussultare.

"Anch'io." disse. "Dove vuoi che porti questo treno? A Torino."

"Potreste, che so io?, scendere prima. A Roma, a Genova." E mentre pronunciava il nome di queste città gli sembrava che stesse dicendo New York, Buenos Aires, Melbourne.

Il compagno di viaggio, che all'eventualità di scendere lungo il percorso del treno non aveva pensato, rispose:

"No, vado a Torino. Di dove sei, giovanotto?"

"Sono di F*."

Il vecchio non conosceva il suo paese se non per sentito nominare. Cominciò a rendersi conto allora che non era così importante come aveva immaginato: si trattava soltanto di un mucchio di case alle pendici di un altopiano di terra rossa.

L'altro riaccese la pipa volgendo fuori lo sguardo. Aveva nei gesti una dignità diversa, che stentava a classificare. Dalle sue parti assumeva altre connotazioni. Il dialogo appena cominciato già languiva. Prese a sfogliare il giornale per non essere da meno del compagno di viaggio che si era chiuso in se stesso. Accavallò le gambe e solo allora si accorse di una scarpa che gli stringeva. Non osava toglierla per non mancare di rispetto al vecchio e per non infrangere una norma di buona creanza. Quella maledetta scarpa diventava sempre più stretta e dolorosa. Il piede era gonfio e un ago gli penetrava nella carne. Si agitava e spesso infilava il dito per allentare il morso.

"Se ti fanno male le scarpe," disse quello "levatele pure."

Si era accorto del suo disagio nonostante i tentativi di dissimulazione.

"Ho talmente viaggiato su questi treni," continuò il vecchio "che posso dire di conoscerli solo dall'odore, uno a uno e in qualsiasi stagione dell'anno. E' la prima volta che viaggi?"

Non era una domanda.

"Se n'accorgerebbe anche un cieco. Non avere timore, per tutti c'è una prima volta."

Lo trattava da inesperto, ma non da pivello.

"Ti aspetta qualcuno a Torino?"

"No." rispose. "Non c’è nessuno."

"Forse è meglio per te." continuò il vecchio. "Forse è meglio, ma chi lo può dire?"

"Prendete, bevete un sorso di questo vino. Non ho bicchieri"

Il vecchio si pulì le labbra con la manica della camicia, accostò la bottiglia alla bocca.

"Salute!"

"Buon pro vi faccia."

Inghiottì un lungo sorso.

"E' buono." Ne prese un altro.

Guardava bere quel vecchio di fronte, mentre la gola avvizzita sussultava. Gli ricordava suo padre e non si sentiva più solo. Si tolse la scarpa.

"Il vino disseta, dà ebbrezza, esalta l'uomo ed è il suo tormento." disse il vecchio.

"Già." rispose. "Il vino, Bacco, Dioniso. A scuola..."

"Ma che scuola e scuola. Voglio vedere, dopo una giornata di lavoro, se manca il vino!"

Continuarono a parlare di molte cose fin quando i raggi del sole non entrarono obliqui dal finestrino.

Il treno si fermò a una grossa stazione e i viaggiatori che avevano prenotato gli altri posti dello scompartimento salirono. Questi parlarono poco e tra loro in un dialetto stretto e dal vago accento zingaresco che lui non capiva. Non fecero comune, mangiarono in disparte e subito s'addormentarono.

Ora il treno correva nel buio. Rotolava rumorosamente sui binari lucidi lanciando nell'aria ululati strazianti. Nello scompartimento dormicchiava con la guancia appoggiata alla mano. Il vecchio russava incurante degli altri e nessuno aveva da ridire. Allora si tolse anche l’altra scarpa.

A Napoli il treno arrivò con leggero ritardo. La stazione era illuminata da lampade al neon che le conferivano un aspetto irreale. Non c'era anima viva. Si sentiva solo il lontano gracchiare di un altoparlante che si perdeva tra il groviglio dei binari sepolti nel buio oltre le pensiline e tra le ruote dei carrelli abbandonati sui marciapiedi. Prese il coraggio a due mani per paura che il treno partisse all'improvviso e lo lasciasse a terra e di corsa scese a bere alla fontanella.

Di ritorno, osservò nella semioscurità dello scompartimento il vecchio che continuava a dormire a bocca spalancata appoggiato alla spalla del vicino. Ogni tanto sussultava, stava per svegliarsi, ma il suo sonno la sapeva lunga. Dormiva come se stesse nel letto con la moglie, grassa e vecchia, infagottata nella sottana bianca. Immaginò la loro camera da letto. La spalliera, il quadro del Sacro Cuore, il ramo dell'olivo benedetto, i materassi induriti e la coperta di lana grezza.

Quando il treno ripartì rimase nel corridoio per l'odore cattivo che stagnava nello scompartimento. Si sedette sul sedile pieghevole e rimase solo con i suoi pensieri. Guardava fuori sprazzi di luce e brandelli di case che la velocità del treno trascinava all'indietro. Un mondo attraversato dalla violenza meccanica della velocità, strappato agli occhi e confuso dietro i vetri del finestrino sporco.

"A quest'ora - saranno le tre del mattino - come sarà il paese?", pensava.

E gli piaceva farlo convinto di averlo lasciato orfano della sua presenza e per questo mutilato e in attesa soltanto del suo ritorno. Un paese, una cosa sola palpitante nell'immaginazione. "Un paese è non essere soli" scriveva Cesare Pavese. Non un ammasso di case ed esistenze alla rinfusa ammucchiate, per chissà quale disegno del caso, a costituire un agglomerato in fondo a una valle pietrosa.

Intanto il treno nella sua corsa, che sapeva di fuga folle per la paura del buio che si lasciava alle spalle, trascinava il carico umano sempre più lontano. Trascinava la sua esistenza per stravolgerla in una città che non conosceva. Partire, scappare per paura e avere paura. Una prostrazione umiliante collegava il cuore agli occhi. Strappava nodi dallo stomaco e li trasferiva in gola dove avevano sfogo e si scioglievano nel pianto silenzioso in mezzo a quel corridoio vuoto, attraversato dagli spifferi d'aria e unto di sporcizia consolidata.

Nonostante gli scossoni, riuscì ad assopirsi. Lo ghermì un sonno svogliato, disturbato dal risucchio delle gallerie. Una febbriciattola altalenante lo trasportò in braccio al delirio. Si vide sorridente in mezzo a una vigna. L'asino brucava la poca erba dello sporo. Zappava a schiena curva e si diceva:

"La terra è bassa, troppo bassa, ma grassa e succulenta come un piatto di maccheroni. Ora ci spargo sopra manate abbondanti di formaggio."

Lasciò la zappa e si trovò a pisciare contro un muro a secco. A quel punto improvvisa spuntò da un buco tra le pietre la testa di un'enorme lucertola. Rinchiuse spaventato i pantaloni.

"Malanova, che Sampaolo!"

E corse a rotta di collo giù per la vallata. Era una corsa gioiosa nell'aria frizzante, saltando muri e sterpi, con le siepi che frustavano i pantaloni sotto le ginocchia. Ma non c'erano rovi spinosi sul suo cammino e in fondo alla valle scorreva una fiumara d'acqua allegra verso il mare. Le campagne erano un barbaglio di luce giallastra per le stoppie e Monte Scarrone si ergeva come un mastodonte contro il vento.

Si svegliò che erano in Liguria. A tratti si scorgeva il mare che bagnava le insenature rocciose. C'erano molte imbarcazioni cullate dalle onde lievi dei porticcioli. E perdeva gli occhi curiosi fuori del finestrino. A Genova il treno, con un sibilo che lacerava l'aria tersa del mattino, ripartì scomparendo dentro la galleria e cominciò a salire attraverso il cuore delle montagne, con il susseguirsi di pochi attimi di luce a minuti lenti d'oscurità. Dopo le montagne divorò la pianura.

"Possibile," si domandò "che qui coltivino tanta terra così bene?"

Il treno filava liscio sull'olio di quella pianura verde e piatta. I cascinali si rincorrevano con i loro pennacchi di fumo. La terra evaporava al tiepido sole mattutino e sembrava esalare la sovrabbondanza di fertilità senza che i radi alberi dei filari se n'avessero a male. Alberi senza invidia, allineati come militari in parata, che rompevano le leggere folate della brezza che spirava dal lontano biancore delle Alpi.

Sul treno la conversazione languiva. Ognuno stava raccolto nell'attesa di preparare i bagagli in prossimità dell'arrivo. Lui aveva sconfitto già da un pezzo il torpore del risveglio e ora cominciava a essere preoccupato. I suoi pensieri erano concentrati sul fatto che non sapeva quando sarebbe stato il momento di scendere. E se avesse sbagliato stazione? Comunque, per non fare la figura dello sprovveduto avrebbe chiesto al vecchio che certamente lo sapeva. Anzi, avrebbe guardato fuori del finestrino senza spostarsi di un millimetro fin quando non avesse scorto le pensiline della stazione e l'indicazione bella grossa.

Su questi pensieri si acquietò e volse gli occhi ai bagagli abbracciandoli tutti con un solo sguardo. Non si poteva mai sapere, a qualcuno potevano prudere le mani e addio patria. Avrebbe fatto la figura del fesso. Si tastò la tasca per accertarsi del portafoglio. C'era ancora. Senza quei pochi soldi poteva considerarsi perduto. Respirò sollevato.

La stazione si avvicinava sempre più. Lo sentiva dall'aria acre degli scompartimenti aperti ormai come tante bocche spalancate e dall’animazione dei viaggiatori, stanchi per la lunga nottata trascorsa e sollevati per essere quasi giunti alla meta.

Dopo lenti minuti d'attesa davanti a un semaforo rosso, finalmente il treno entrò nella stazione. Oltrepassò il cartello con la scritta "Torino Porta Nuova", sferragliò lento sugli scambi e si fermò con una leggera scossa. Sotto le pensiline era un brulicare di teste e dai finestrini un agitarsi di braccia. Scese anche lui a Torino dopo gli altri. Era il dieci di settembre.

Schiamazzo di bambini lo distolse dai ricordi di quel primo viaggio. Quanti anni erano passati da allora! Ora eccolo di nuovo alla stazione di partenza. Si scosse e accese un'altra sigaretta.

"Una volta o l'altra dovrei smettere di fumare", pensò.

Il capostazione era spuntato dal sottopassaggio. Con calma arrivò in cima al treno. Era ora di partire. Salì senza fretta e si affacciò al finestrino. Il capostazione levò alta la paletta. Il treno con un'impercettibile scossa si mosse. Le quindici e diciotto: perfettamente in orario.

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Dell'amor tradito 

Cantava quella mattina mentre tagliava l’erba per i conigli. Cantava a voce spiegata con la falce in mano. Pensava all’amor suo che di nascosto sarebbe arrivato sbucando dalle ginestre. Sarebbe arrivato a momenti e le avrebbe detto parole di miele. Per darsi un contegno si sarebbe seduto più in alto, sull’armacera, intento ad arrotolarsi una sigaretta di trinciato forte.  Poi fumando l’avrebbe guardata con occhi innamorati e suadenti e avrebbero parlato del loro avvenire, del loro amore e di tante cose belle. Ché tutto con lui appariva bello, dolce, delicato: il sale sarebbe diventato dolce come zucchero, miele, cannella, gelsomino, zagara fiorita. Cantava e il cuore scoppiava di gioia.

            “Canti, Maria, come una rindina.”, gridò per saluto un contadino di passaggio per il viottolo a dorso d’asino.

“Il canto è lo specchio del cuore. Si canta per passare il tempo in armonia.”, rispose.

“Amuri, amuri, quantu sì luntanu.

Cu ti lu conza lu lettu la sira?”

Riprese a squarciagola.

Il mattino era avanzato e il sole scaldava già cespugli e troffe. La ragazza su punse un dito e lo mise in bocca per levare la spina con i denti.

            “Maria.”, sussurrò Peppino da dietro un olivo.

            “Malanova che ti prenda.”, rispose lei. “Mi hai spaventata, scecco che non sei altro.”

Con baldanza il giovane le si avvicinò, la prese per i polsi e l’attirò a sé. La baciò sulla bocca.

Maria si divincolò con energia e si asciugò le labbra con il dorso della mano.

            “Che ti ha preso?”, disse sorpresa . “Manco li cani.”

            “Come sei bella, cuore mio!”

E le si accostò di nuovo.

 Il mattino di un mese dopo, Maria salì sull’autobus col suo maccaturi legato in testa. Ebbe un attimo di mancamento anche a causa dell’improvvisa partenza. Reggendosi ai sedili giunse in cima all’autobus davanti al giovane bruno dai tratti pronunciati. Giuseppe guardava fuori del finestrino. Stava partendo e non aveva salutato nessuno. Nemmeno lei. Di nascosto aveva infilato le valigie nel portabagagli dell’autobus lontano da casa e di corsa era salito come un ladro. Scappava.

Davanti al giovane, Maria  estrasse dalla camicetta la rivoltella e sparò. Sparò fino a quando il silenzio non sopraggiunse. Poi inebetita si portò le mani al volto e pianse a voce forte.

Inutilmente i carabinieri le chiesero il motivo di quel gesto estremo, da lasciare semmai a uomini d’onore e delinquenti incalliti. Non certo alle mani tremanti di una contadina semi analfabeta. Lei taceva nel suo pianto convulso. Li guardava e non capiva il loro interessamento a quel suo fatto tanto personale. Non era giusto forse? Li guardava con gli occhi arrossati e stanchi. Non simulava dolore, non c’era soddisfazione, non odio appagato. Esprimevano la precisa determinazione che le aveva armato la mano.

Era molto giovane Maria. Quasi una bambina. Vestiva di nero per la morte recente del fratello. Portava i capelli neri legati a crocchia e l’innocenza negli occhi. Non aveva coscienza del peso enorme del suo gesto. Ma appariva determinata. Caparbiamente non rispondeva alle domande dei militari. Il suo atteggiamento risoluto colpì il vecchio maresciallo che si alzò pesantemente dalla sedia dietro la scrivania e disse ai sottoposti:

“Questa non parla.”

Nemmeno con il giudice parlò. Rimase chiusa in se stessa come un riccio. Sommersa nei suoi pensieri, in un mutismo feroce. Guardava fisso il quadro appeso al muro alle spalle del magistrato. Accarezzava con gli occhi il ritratto di quel signore occhialuto, il suo vestito severo che copriva un corpo grassoccio e la cornice di legno che racchiudeva tutto l’insieme sotto il vetro. Doveva trattarsi di persona importante per essere ritratta ed esposta addirittura nell’ufficio del maresciallo dei carabinieri. Qualcuno molto potente, molto influente anche a Reggio, uno che comandava.

“Signorina, la prego, risponda alle domande. Lo faccia per il suo bene.”,  diceva il giudice, un giovane pretore dallo sguardo mansueto.

“Maria, rispondi al signor giudice.”, intimò il maresciallo.

In quel momento scattò dentro di lei il meccanismo atavico di diffidenza verso quella gente, verso il potente, verso il carabiniere.

“Andate a pigliarlo a Malta!”, proruppe sdegnosa. “Portatemi in carcere e facciamola finita.”

Il giudice, preso alla sprovvista, rimase sbalordito; il maresciallo si grattava la nuca; il carabiniere alla macchina per scrivere atteggiava le labbra a incredulità.

Bene dovevano sapere costoro - pensava Maria – il motivo dell’omicidio e si divertivano a torturarla. Omicidio. Questa parola rimbombò nella mente come tuono di temporale, pesante come sacco bagnato di olive che ti cade malamente sulla schiena. Omicidio: parola terribile! E lei ne aveva commesso uno. Aveva ucciso, aveva tolto la vita, c’era un morto che non sarebbe più resuscitato. Aveva ucciso l’uomo che amava. Aveva versato il suo sangue.

Fu a questo punto che improvviso le arrivò un manrovescio tra la guancia e il naso. Una di quelle sberle che ti lasciano tramortito per un’ora e che ti fanno pensare “donde vengo, vengo dal mulino”. Vide dopo un pezzo il maresciallo che si palpava ancora la mano. Maria non protestò. Si limitò a massaggiare il volto arrossato e dolorante. Chinò la testa e si rimise a piangere.

All’improvviso proruppe con violenza:

“L’ho ammazzato a quella carogna che mi ha disonorata. E non mi voleva sposare.”

“Questo lo pensavamo, signorina. Ci dica: è stata spinta da qualcuno, suo padre, un parente?”

“Queste sono cose che si fanno da soli.”

“E la pistola chi gliel’ha data?”

“Era di mio nonno che è morto.”

Gli inquirenti capirono che non avrebbero tratto più nulla dalla ragazza sconvolta, ma che trovava ancora la lucidità per non compromettere altre persone. A loro bastava e la lasciarono al suo dolore. La rinchiusero in una cella con sbarre di ferro e tavolaccio.

Al buio Maria si mise a cantare:

“Amuri, amuri, quantu sì luntanu...”

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Solo per il nome

(o della figliolanza)

Chiamatemi Ugo (non è il mio nome, ma fa lo stesso). Breve, lugubre: U-g-o. Ululato di cane, urlo di dolore, cagione di ludibrio e scialibio della massacanaglia dei Peppino, Annunziato, Carmelo.

E che fu? Condanna di tribunale, finezza di genitore, malinconia notturna, o nonna Brigida Rosa suggerì nome patrizio? Da cosa da niente scascio grande: un nome, solo per un nome imposto con tardiva testimonianza falsa del Forgiaro e di un altro strascinafacende davanti a mastro Ciccio, ufficiale d’anagrafe per meriti littori passati in giudicato.

O mamma, che facesti? O padre sciagurato, se mi ascolti, perchè non scancellasti di straforo l’inchiostro delle carte? Forse che Caino di me stesso divorai Abele tragediatore nel ventre materno e dallo scosso uscii insanguinato alla luce di lumèra,  per meritare quel nome di condanna? Patre, patre, patre mio, tu che puoi, dammi risposta!

Da cosa da niente danno irreparabile, teatro e cinematografo, senza biglietto e sgravio di tassa, trastullo e mutuperio nelle vinelle. Cane alla catena di quel nome, avutane contezza, non paventavo la marmaglia, ma digrignavo i denti e pareggiavo groppe ogni tanto solo col pensiero.

Beffa fu per il nonno, tempesta nella testa di carracefalo, sconquasso grande nelle viscere patriarcali fu e nel budello mastro. Pretendeva nome a ogni primogenitura con la libretta pronta per la posta e i soldi sparagnati li cangiò in vino all’osteria.“Ugo, Ugo e Ugo sia. Ancùlu la libretta!”

Mi tirarono su a papazella – zucchero e pezza – nella camiciola pulita di lisciva. E accesero fuochi accanto alla gistra sotto le luvare durante la raccolta. E il nonno, l’altro, il gigante buono dalle mutande trabordanti e la camicia aperta all’ombelico, con la coda dell’occhio vigilava col forcone per le serpi.

Vigilanza stretta, chè già morto era il primo. A nulla servì la scienza paesana e Spiantacristiani protomedico sentenziò: avvelenamento. Se lo portarono quattro verginelle nella bara sugli asciugamani ricamati, senza corone. E piantarono nella terra smossa una croce di marmo col suo nome.

La puttana sorte sparava a zero sulla mamma. Anch’io imboccai quella strada e volai Icaro senz’ali dalla loggia e la carrettella di mastro Rocco appresso e dietro l’urlo ferino della donna. L’undici di maggio. Caddi di spalle oltre il tavolato. Volai, volai a testasotto sul listrico di pietre. Nell’impotenza lacerante di carne e ossa e sangue. Davanti al pubblico delle vacche da ferrare.

E tutto fu terrore d’occhi. Stelle gelide, siderali esplosero nel freddo cielo e moltiplicarono catene di fuoco e mozzicate di cane dentro la testa. Fu sangue caldo, fluente dall’orecchio, lungo il collo e tiepido colò sotto l’ascella. Tinse la camiciola e fu sputo di sangue sul cemento. Un mucchio di sangue e stracci sul selciato.

Chi fu che tentò d’acchiapparmi a volo, chi mi fece da cuscino nel viaggio, chi consolò la madre, chi avvertì nelle campagne, chi diede voce? O madre, madre di dolore, madre contadina, cuore arrostito, marmo scricchiolante, pioppo lacerato, rosa in primavera già appassita!

A balzi il vecchio motocarro Guzzi mordeva la fiumara e tremava il baffo di Martello, improvvisato ambulanziere, per il carico umano di corsa all’ospedale. Correva Martello, fluivano le timpe, le balze. Penetrava nello stretto il traballante Guzzi nel puzzo di benzina, arrancava alle salite nel rombo del motore, volava nelle marine tra il rosso della sulla. Poi finalmente il mare abbacinante e all’ombra delle palme l’ospedale. 

E Mena dov’era? Mordeva la vestina in un canto abbandonata e piccola si faceva piccola, orbe le braccine del mio peso. Vuote le mani, sbarruvati gli occhi, senza più tempo e senza giochi con le compagnuzze. Mena dov’era?

Mi davano per morto. Giorni disperati. La mamma giaceva nel letto di rovi incandescenti. Anche l’Arma si mise in movimento. Perchè, percome, quando. Col marito armava sciarre, e lui dov’era, e il bambino si guardava? Soffiavano sul fuoco di sventura. Ma non li calcolava. Il suo cuore batteva dentro il mio, il fiato suo dentro il mio petto, il suo calore ardente scaldava le mie labbra.

Il terzo giorno apparve all’intresatto Nino Martino sul cavallo ferrato all’incontrario, e Micuni brigante ammantellato di nero e con lo schioppo. Appostato a San Cormo sotto le pirare un destriero,  garriva al vento la criniera, le froge arroventate. Santo Scidone, mastro schermidore, con la sferra e Peppi Musolino armato di doppietta e il cugino Carmelo Cirivillino con la rivoltella e il nonno gigante sul mulo carico di foglie brandiva il forcone del letame e una vecchia lupa azzannava l’aria pronta al balzo. Esercito potente a battaglia schierato e votato al sacrificio. Immoto nell’attesa, sotto le bandiere offerte al vento. Volteggiava il rapino della morte a giri larghi, lento, l’occhio di cristallo fisso sulla preda. Ma vigilavano attenti dal ciglione i paladini, l’armi corrusche e minacciose. Trafitto dal bagliore di mille saette cadde il rapace e le piume scianiate si sparsero al vento lungo la fiumara. A mucchio calarono tutti sul nemico e, prima, la lupa dilaniò le carni e il nonno col calcagno spiaccicò il resto nella polvere. Alto si levò dalle filese un peana di vittoria. Cantava il requiem alla morte.

E fu luce e parola e riso. Alba sulle bocche e corna per i vicini. Corna di castrato sulle ciaramite e culi voltati di padella. Sputo alla jettatura e al gabbo. Per fortuna non era stagione di limoni e la vita, Rosina bella, zucchero d’innamorata, fiore di bellezza spampanato, a getto tornava nelle vene.

Getto prepotente, assatanato, rovina devastante della casa, amaro frutto di cipressa, sale grosso per le piaghe purulente, zargara per la bocca allapparata, veleno, sì, veleno per la rua. Chiudetevi le porte, o cristiani! O Madonnuzza delle sette spade, voi che sapete, madre dolorosa, pene, fiele del cuore, rina di fiumara nel sanguzzo ch’era zuco d’erba amara, pigliatelo voi per i capelli, voi che potete, portate in salvamento più di prima il figliuzzo mio sciagurato. Intercedete, madre, in alto loco!

E che fu? Vendetta di sagristano, gabbo, magaria, jettatura, malanova, invidia, pagamento di jazzo? Niente fu, ma in casa e fuori si trovarono scascio grande, capotimolo, spavento di bambino, terremoto di una vita ritrovata. Tienilo a bada se puoi ch’è ferfero potente; e mani nei capelli e mozzicate che naturale era spaccare mobili, rubare coltelli, smendare gente, scannare gatti, torcere il collo alle galline e terrorizzar passanti armato di scopetta.

Soluzione trovarono – ingenua speranza! – nell’asilo. Tre giorni appena e fui dalle monache cacciato per non sderegnare una generazione intera di bambini sotto la catasta di tavole a rovina, per non tagliare col coltello da cucina il collo rappato di suor Biagina.

Il nonno gigante, quello del forcone, enorme e buono, cagazzo grande si prese che ero in cima a una scala, vedetta a carapinna sui catoi. Paralisi, tocco, botta di sangue e tremito di iargiali. Ma scesi e passai davanti al vecchio, senza curarmi dei lampi d’impotenza del poveruomo. Io dominatore delle genti, sprezzatore del cielo e della terra e di mia madre col cuore sul rasoio!

Le rivele al padre sciagura per lui e mano pesante sulle nappe per l’impenitente reo d’infame nominata. Che aveva mozzicato le palle al Padreterno per meritare quel figlio? L’aveva la medicina giusta per il marmarico, ricetta buona della farmacopea contadina: un ferro ardente in fronte come alle pecore ammattite. Il fuoco, dicevano gli antichi,  col fuoco si combatte.

La figliolanza è dura a passare e trascorsero anni di rapino e morì una donnona altera in frabbalà che dissero mia nonna. Bòh, e chi la vide mai? Dopo il funerale, nel nero dei parenti, usciva la sentenza e senza appello.  Mi spedirono a dormire la notte col vecchio invedovato e solitario.

O Tribunale dei Patriarchi, Altissima Magistratura Incontestabile, Signori del Diritto sulle Genti, manco uno sconto di pena, grazia, indulto, amministia? Venni a te per misericordia ed ebbi giustizia, Tribunale ingrato!

La croce amara trascinai sul Calvario fino alla mattina che il cataparmo stirò le gambe. Dormivo accanto e non mi accorsi. Correte, cristiani, padre e parentato. Correte che il nonno è teso come un piscistocco nel lettone. Mamma, mamma, se n’è andato! Requiescat in pace la sua anima dannata.

E così Israele lasciò la terra d’Egitto. O forestiero, che di qua tu passi e spassi, non sentisti l’osanna di liberazione e il tripudio delle genti?

Mai un sorriso, un fremito del cuore, una carezza, una parola. Per anni. Nonno negriero, che Caienna! Obbedienza pronta agli ordini del califfo nano senza cammello. Pisciai, o sì, pisciate grandi nel bòmbolo dell’acqua di Jovani. “Stavolta è fina, nonno. E’ minerale! Comandate ancora o posso andare”

Sul catafalco di tavole, nerovestito in pompa magna, camicia con pistagna, scarpe nuove e baffi in tiro col limone, gli tapparono la bocca col cotone. Tutte le donne di famiglia tessevano le lodi dell’anima puttana. La mamma no, cazzolata! Anche per lei finiva il mio Calvario e muta gli cantava un tantumerga di rinfriscamento.

Solo per un nome che non celebrava l’onomastica del casato. Solo per il mio nome sanzione e pena grande e sale per la casa ottenni. Scontata la pena, più incanaglito uscivo in libertà. Coda di Belzebù, barba di Satanasso, piede di porco e coscienza di rinnegato.

Ma scotto pesante d’innocente pagò la mamma, dura e fragile pietra di filesa, che imprecava come disperata, pregava come penitente, faceva voti e infine riuscì nell’opera – o forse fu il tempo – di rinsavire questo malacarne. Mamma che cadesti d’un pezzo sotto il sole di giugno nel campo d’avena a  mezza costa.

Ma questa è un’altra storia che avvenne molto tempo dopo.

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10 Agosto, San Lorenzo

 

Non sono tornati

stanotte

gli amici al Passo.

Forse non verranno più

ormai

in fila per la fiumara.

Non trema di passione

e d’amore disperato

la luna

a cavallo del Mancuso.

E il profondo respiro di Pampogna

non accompagna

i nostri sonni abbandonati.

Ma l’alba grida di luce

dallo Scifone

alle orecchie sorde

di nipoti che parlano

lingue straniere.

dormono ancora,

quieti e belli,

nelle vecchie case.

 

 

PULCINO, LA STAFFETTA PARTIGIANA*)             

Il pomeriggio è inoltrato. Dal versante della montagna le prime ombre della sera lambiscono la baracca in mezzo alla vigna. Seduto su di un masso, Terra tenta con scarsi risultati di riparare gli scarponi col filo di ferro. I compagni lo hanno chiamato Terra per la sua origine meridionale. Molti partigiani lo sono. Anche i comandanti Barbato e Petralia. Garibaldini senza esitazioni.

 Lo hanno chiamato Terra da pipe, scherzosamente, e quindi semplicemente Terra. Ha gli occhi scuri, un sottile paio di baffi, i capelli corvini riccioluti e pettinati all’indietro. Una fossa al mento. Parla poco, ma ride di un sorriso franco. Ha una tuta da meccanico, stretta da una cinghia di cuoio.

Da basso si sente un fischio prolungato. Dopo qualche tempo spunta da viottolo il vecchio Pietro. Tira il fiato appoggiato al fucile come a un bastone. Ha la barba brizzolata incolta e sudata. E’ il veterano del gruppo, di fiducia del comandante. Si accoccola vicino a Terra con un sospiro lamentoso che vuole essere un saluto. Tira fuori dalla tasca il tabacco e si arrotola con cura la sigaretta. La offre al compagno col gesto.

“E’ inglese.”, dice.

            Terra rifiuta con un cenno del capo.

            “Me ne ha fatto parte un giellino su al comando. Loro hanno avuto un lancio.

            Terra finisce di calzare gli scarponi aggiustati alla meglio.

            “Bisogna che tu vada al comando.”, continua Pietro. “Per stasera. C’è del movimento in aria.”

            Il giovane annuisce.

            “Siamo quasi in inverno.” dice il vecchio. “Gli Alleati sono impantanati da qualche parte in Centro Italia. Per quest’anno non se ne fa nulla.  E sarà dura.”.

            Terra ascolta guardando le scarpe di Pietro. Sono malmesse più delle sue. I pantaloni di spesso fustagno sono rattoppati alle ginocchia. La giacca di pelle perde pezzi. Pietro fuma assaporando il fumo azzurrino della sigaretta.

            “So quello che pensi, Terra. Credo che molti devono tornare a casa, quelli delle nostre parti che possono. Se ne parlava al comando. Forse anch’io porterò in cascina questa vecchia carcassa. La gente dà quello che può. Di più non puoi pretendere. Anche loro sono all’osso…”

            Dalla baracca si vedono  le case sparse nella valle. Ogni tanto si sente l’abbaiare dei cani nei cortili. Silenzio tra le dolorose ombre della sera.

            “Già.”, dice Terra.

            Pietro continua il suo discorso. Quasi uno sfogo. L’autunno inoltrato ha arrossato le foglie; i primi freddi si fanno sentire e costringono nei pagliericci molti di loro. Gente salita in montagna  senza equipaggiamento. Sbandati, giovani coscritti, quasi tutti senz’armi. Si è raccattato qualcosa nelle caserme abbandonate e lungo i sentieri della IV Armata in ritirata dalla Francia. Ma è poca cosa. La disciplina si sta allentando. Qualche ruberia nelle cascine: roba di poco conto che però bisogna punire con severità. Nei reparti l’inverno lo passeranno in pochi. Tutti quelli che potranno scenderanno in pianura.

            Pietro parla e una piega amara gli compare ai lati della bocca. Le rughe si accentuano in solchi profondi. Terra ascolta assorto disegnando per terra con uno stecco. Sta imbrunendo.

            “Dio…”, bestemmia Pietro.

            Si alza ed entra nella baracca lasciando il vecchio fucile appoggiato al muro. Terra in piedi si stiracchia. Se è per la sera bisogna muoversi. Si accomoda la tuta e stringe la cinghia di un foro. Prende il mitragliatore per la canna e aspetta l’altro.

            “Si va?”

            I due si incamminano, Terra avanti e il vecchio dietro. In silenzio.

            Quando arrivano al gruppetto di baite del comando è appena buio. Gli uomini discutono a gruppi. Sono giovani. La figura di qualche anziano – basta avere trent’anni per essere anziani – si nota per la compostezza e la serietà dei gesti.

            “Ah!”, dice Pietro. “Il comandante ha già parlato.”

            “Di cosa?”, chiede Terra.

            “Di quello che ti accennavo prima. Le cose si mettono male. E’ necessario che chi può vada a casa. Rimangono solo quelli che, come te, Terra da pipe, e altri non possono. Forse anch’io…”

            Terra guarda i compagni. Solo pochi sono armati. Vecchi fucili di recupero, qualche pistola. Rari i mitra e poche le cartucce. Penosa la situazione delle munizioni e delle vettovaglie.

            Arriva di corsa Pulcino, un ragazzo di sedici anni. E’ arrivato in montagna tra i primi. Salta sulle spalle di Terra che ride per la sorpresa. Sono legati. E’ l’unico con cui Terra scherza volentieri.

            “Stasera si scende a suonargliele”, dice ridendo pulcino. “Ci vengo anch’io.”

            Il ragazzo fa “Tatatatà!”con la bocca imbracciando un mitra immaginario.       

          Terra non riesce a frenare una risata. Fa per accarezzare la testa al ragazzo che si scosta indispettito.

            “Ohé, napuli, mica sono un cit. Le mani a posto. Sono un partigia!”

            “Feroce saladino,” interviene Pietro. “Va ad aiutare in cucina.”

            Sulla porta di una baita un allampanato e secco partigiano con baffi spioventi fa cenno verso di loro. Vuole il ragazzo.

            “Ci vediamo dopo.”, saluta Pulcino e si allontana a malincuore.

            “Dice sul serio?”, chiede Terra.

            “Sì.”, risponde Pietro. “Vi farà da staffetta. Domani poi lo manderemo al sicuro da amici.”

 

            Il comandante  Neri è un uomo sulla trentina, baffi biondi macchiati di fumo, borse sotto gli occhi. Porta una camicia militare con tre stelle cucite sul petto. Sta seduto dietro un tavolo intento a leggere delle carte. Entrano Pietro e Terra. Il comandante li accoglie con un sorriso. Pietro posa il fucile in un angolo.

            “Missione compiuta, capo.”, dice al comandante. “Te l’ho portato.”

            “Ciao, Terra. Eccoti qua.”

            “Buona sera, Neri. Mi volevi?”

            Dalle parole si nota lo sforzo per la timidezza e uno strascicato accento del Sud.

            “Dimmi, Terra, tu non eri in Aviazione?”, chiede Neri.

            “Sì.”, risponde il partigiano. “L’otto settembre stavo finendo un corso di motorista a Torino. Ma ero di stanza ad Alessandria.”

            “Scuola?”

            “Ho le superiori.”

            “Ho capito. Ti ho fatto chiamare per un’azione in pianura. Sai andare in bici?”

            “Cado poco.”

            “Bene. Prendi da fumare.”, dice il comandante. Gli allunga le sigarette.

            Terra accetta e siede con il mitra sulle gambe. Il comandante esce. Da fuori si sentono le voci dei partigiani. La stanza è disadorna. Sul tavolo del comandante, la macchina da scrivere e fogli sparsi. Terra fuma e dà uno sguardo distratto alla cartina geografica appesa al muro. Dopo qualche minuto rientra il comandante seguito da due uomini. Uno è molto giovane, un ciuffo di capelli biondicci sulla fronte. Indossa una giacca mimetica  e pantaloni civili rattoppati. E’ Tom. Si conoscono da tempo, lui e Terra, e sono quasi amici. Tom si ravvia il ciuffo con le dita della mano. Si avvicina a Terra e gli dà una pacca sulla spalla. Terra abbozza un sorriso.

            “Ciau, chiacchierone. Ci sei anche tu?”

            Il comandante si siede sul tavolo con le gambe penzoloni. Prende delle carte e comincia a parlare.

            “Vi conoscete già. Bene… L’azione di stasera è stata concordata con i comandi di tutte le altre formazioni che operano in zona. Giù a S. al cinema Nazionale deve parlare il generale L. E’ un papavero  repubblichino. Un pezzo grosso, deve cadere facendo molto rumore. Ma è naturale che non voglio – dico: non voglio – gesti di eroismo stupido e gratuito. Niente smargiassate. Ve la sentite?

            Gli uomini si guardano. Il colpo è di quelli grossi.

            “Si tratta di agire di sorpresa e con la massima decisione. Se la cosa si presenta fattibile. Altrimenti dietro front e gambe… In questo momento abbiamo bisogno di un’azione dimostrativa. Prima dell’inverno.

            I partigiani si guardano di nuovo.

            “Si può provare.”, dice Tom.

            L’altro partigiano annuisce con la testa. Terra scrolla le spalle.

            “Verrà con voi Pulcino e vi farà da staffetta lungo la strada. Poi guarderà le biciclette. Sarà qui tra poco. Il ragazzo non deve assolutamente prendere parte all’azione. Ora i dettagli. Nella casa all’imbocco della provinciale…”

            Fuori nello spiazzo si sente a intermittenza la voce calma del comandante. Gli uomini del distaccamento si stanno preparando per la notte. Accosto a un muro c’è il fuoco acceso. Il vecchio Pietro sta accendendo la sigaretta con la brace di uno stecco. Pulcino gli arriva alle spalle silenzioso. Gli sferra un calcio  e scappa ridendo. Il vecchio gli grida:

            “Figlio di quella gran baldracca di tua madre!”

            E fa finta di rincorrerlo.

            Pulcino entra a valanga nella stanza del comandante.

            “Sei entrato, eh? Non era il caso di farlo con tutto quel garbo!”, ironico Neri.

            Gli uomini ridono e Terra si illumina. Il ragazzo gli siede accanto e comincia ad armeggiare col mitra.  

            “Caccia le mani dal caliatore.”, lo rimprovera Terra.

            “Lascia stare quell’attrezzo. Che se parte fa danno.”, calca la mano il comandante con voce severa. “Ascolta bene anche tu.”

            “Comandante, voglio anch’io un’arma.”

            “L’avrai, l’avrai.”, risponde Neri con un’asprezza insolita. “Ma la usi solo in caso di necessità estrema e solo per dare l’allarme. Solo per dare l’allarme. Capito?” E tira fuori dal cassetto del tavolo una pistola automatica. La porge al ragazzo e continua:

            “ Ha una sola pallottola, da usare strettamente per quello che ho detto.”

            Gli occhi di Pulcino brillano e le mani fremono per la voglia di afferrare l’arma.  

Nella cascina in pianura, Terra e Pulcino sono seduti su una panca. I compagni sono andati a prelevare le biciclette in una casa vicina. Pulcino gioca con la pistola. La guarda da ogni lato. Toglie e rimette il caricatore con l’unica pallottola.

             “E lascia stare quel ferrovecchio!”, lo rimprovera Terra. “Suona un po’ piuttosto il piffero che ti ho fatto.”

            Pulcino di malavoglia infila la pistola alla cintura  e cava dalla tasca  della giacca un piffero di canna.

            “Tu che sei bravo mi dovresti insegnare.”, fa Pulcino indicando lo strumento.

            “Da’ qua.”

Terra allunga la mano e il ragazzo gli porge il flauto. Comincia a suonare.

“Urca se sei bravo! Una volta o l’altra dovresti insegnarmi.”

Terra ha smesso ed è soddisfatto della reazione del ragazzo. Gli ridà il flauto.

“Un giorno o l’altro ti insegno qualcosa.”

Arrivano gli altri due partigiani con un contadino. Tom regge due biciclette. Gli altri una ciascuno. Il contadino offre da bere agli uomini. Accettano e bevono il vino a turno da un solo bicchiere. Terra per ultimo. Un lungo sorso e scrolla le ultime gocce per terra. I partigiani partono in silenzio. Il contadino con bottiglia e bicchiere in mano li guarda andare via.  

Il gruppo preceduto da Pulcino – gli hanno levato momentaneamente la pistola – pedala nella notte e arriva alle prime casa di S. A ridosso di un muro scendono di sella. Tom consegna la pistola a Pulcino.

“Occhi aperti, uomo.”, gli fa sottovoce. “E non giocare con la pistola. O ti faccio il culo come quello della scimmia!”

Pulcino li osserva mentre guardinghi e raso i muri entrano in paese. Nell’aria le note di una canzone fascista. Il ragazzo siede sul paracarro, ma presto si alza. Si sentono dei passi nel buio. Si appiattisce al muro. Passano parlando tre delle brigate nere. Svoltano all’angolo. La strada è poco illuminata. Qualche minuto e un’ombra l’attraversa  nervosamente. Va nella direzione di Pulcino.

“Fermo là.”, intima all’ombra che si ferma di scatto.

Il ragazzo s’avvicina.

“Chi sei?”, chiede all’uomo che deve essere del posto. “Dammi i documenti.”

Il civile, impaurito e molto nervoso, estrae lentamente il portafoglio, attento a non fare gesti falsi. E’ un uomo di mezz’età, con gli occhiali, leggermente flaccido. Trema.

+Il ragazzo intuisce che ha paura e dei fascisti e dei partigiani. Apre la carta d’identità. Ripete nome, cognome e indirizzo muovendo appena le labbra. L’altro asciuga il sudore della fronte con il fazzoletto.

“Appoggiate al muro ci sono le biciclette.”, fa pulcino con voce dura. “Siamo partigiani. Io vado e torno. Tu fa la guardia e attento a te. Ora sappiamo come ti chiami. Se sgarri ti veniamo a prendere.”

Pulcino parte di corsa nel buio mentre l’uomo con le mani al volto resta immobile accanto alle biciclette.  

Tom, Terra e l’altro sono sotto i portici della piazza principale di S.  Avanzano nell’ombra, le armi imbracciate e le orecchie tese a cogliere il minimo rumore. Un camion e una macchina sono fermi davanti al cinema. All’ingresso due militi fumano. I partigiani si infilano nella traversa e aggirano la piazza per entrare da dietro. Spareranno dalle feritoie della saletta di proiezione. Tutto previsto. La stradina è stretta. Si sentono dei passi. I partigiani si acquattano nei vani delle porte. Tom  mastica nervosamente uno stecco. Terra dall’altra parte della strada stringe forte al petto il mitragliatore. Gli occhi scrutano il buio nervosi. L’altro compagno e rimasto dietro, accoccolato all’angolo scuro di una casa.

La musica degli altoparlanti cessa. Una voce metallica comincia a parlare imitando il Crapùn, Mussolini. Intanto i passi si avvicinano. Si sentono delle voci e una risata. Sono tre delle brigate nere che si fermano a pochi passi dai partigiani a parlare. Gli uomini acquattati nell’ombra sentono distintamente i discorsi.

Un passo di corsa si ode in lontananza. I repubblichini tacciono all’improvviso e imbracciano le armi. I passi si avvicinano. I partigiani scorgono l’ombra che corre piegata nella loro direzione. Corre a zig zag seguendo lo scuro delle case. Ormai è a pochi passi dai militi neri.

“Altolà!”

L’ombra si ferma di colpo. Ha un attimo di smarrimento. I fascisti stanno per saltarle addosso. Sono a pochi passi dai partigiani. Nel buio si ode improvvisa una detonazione. Un milite cade nella strada. Terra è il più vicino al gruppo ed esce allo scoperto. Il mitragliatore spara quasi da solo una raffica singhiozzante. Finisce i colpi del caricatore e s’inceppa. A terra rimangono dei corpi immobili e fumanti. Tom si avvicina al mucchio. Raccoglie di fretta le armi. Terra e l’altro sono immobili in mezzo alla strada. L’altoparlante è muto. Urla e richiami sferzano l’aria.

“Presto.”, grida Tom.

I partigiani corrono senza curarsi di stare nell’ombra. Si sentono latrati di cani.  

Il gruppo arriva alle biciclette. Il civile dagli occhiali vedendoli arrivare scappa senza farsi scorgere. I partigiani cercano Pulcino.

“Dov’è il ragazzo.”, chiede Terra a sé e agli altri. “Dov’ è finito?”

“Sarà scappato quando ha sentito gli spari.”, dice Tom che ha già inforcato la bici. “Dai, muoviamoci!” 

I partigiani sono in aperta campagna. Da un pezzo pedalano stancamente. Tom scende di sella. Gli altri lo imitano.

“Non capisco perché il ragazzo è scappato.”, dice Terra.

Tom tace. Il terzo partigiano si è fermato dietro ad accendere la sigaretta.

Tom e Terra camminano appaiati reggendo le biciclette. Si sentono i cani abbaiare. Tom guarda smarrito davanti a sé. Si ferma e si fruga le tasche.

“Terra, ascolta.”, si rivolge al compagno. “Terra, Pulcino non è scappato. Non scapperà più.” Bestemmia acre nel buio. E gli porge il piffero del ragazzo raccattato per terra in mezzo ai morti.[1]            


[1] Racconto-soggetto cinematografico liberamente ispirato a una storia narrata da ‘Ntoni u Mericano e realmente accaduta durante la guerra.  

La vicenda della morte del giovane partigiano Eugenio Buscatti ,“Pulcino”, è oggetto della testimonianza pubblicata il 24 gennaio 1946 nella rubrica «I lettori ci scrivono» de «Il Saviglianese», periodico della 103° Brigata d'Assalto «G. Nannetti»:

 «Al nostro Comando [...] era pervenuta la notizia che in una villetta vicino alla stazione di Savigliano, erano nascoste delle armi. Fu inviata una squadra d'azione che doveva operare alle due nella notte del 13 in collaborazione con un distaccamento comandato da Ninfa, ma quest'ultimo mancò all'appello. Dopo aver atteso sino alle 4, l'allora capo squadra Alga ne assunse il comando ed iniziarono la perquisizione (premetto che la zona era tranquilla perché malgrado il coprifuoco i giovani passarono dinnanzi alla stazione e non furono molestati da alcuno). Alle 6,30 circa uscirono dopo non aver trovato alcunché perché in detta villetta abitava un vecchio compagno di lotta. Mentre i ragazzi si avviavano verso la via che costeggia lo stabilimento del Gas sul piazzale della stazione sbucarono dei briganti neri i quali lasciarono passare la staffetta "Pulcino" e fermarono Ted e Walter chiedendo loro i documenti. Walter estraeva da sotto la giubba lo sten-pistola e faceva una scarica contro un b. n. che cadeva ucciso mentre la seconda scarica colpiva un altro. Gli altri fascisti anziché reagire fuggirono mentre Alga sparava proteggendo la ritirata dei Garibaldini. Solo uno rimase a terra: Pulcino, colpito da Walter. [...]».

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