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A Fossato Ionico, mio paese di
nascita
UNA STORIA
FANTASTICA, SENZA PRETESE, MA VEROSIMILE
Cap. 3
I Bizantini nell’Italia Meridionale
Già dal VI secolo, in ogni modo, i domini
bizantini d’Italia vengono organizzati politicamente in Esarcato (In
questo stesso periodo s’inizia ad utilizzare la parola exarchos con il
significato di comandante militare supremo). L’Esarca d’Italia era così
l’autorità suprema della Penisola. Sino alla conquista longobarda del
751, sede dell’Esarcato rimase Ravenna data la sua posizione strategica
anche per il controllo dell’Adriatico. Già all’inizio del VII secolo il
territorio bizantino in Italia si era ridotto alla Laguna Veneta, alla
Romagna, alle Marche settentrionali, allo stretto corridoio umbro della
Via Armerina al Ducato di Roma, a quello di Napoli alla costa pugliese
ed a quello calabrese a sud del Crati. Sardegna e Sicilia appartenevano
all’Esarcato d’Africa. Solo verso la fine del VII secolo la Sicilia
stessa fu trasformata in Tema con giurisdizione anche sulla Calabria. In
quello stesso periodo il nome Calavrìa fu trasferito dalla Terra
Salentina all’antico Bruttium. L’odierna Calabria appunto.
Nei primi decenni del IX secolo iniziò la
conquista araba della Sicilia promossa dagli Aghlabiti. La conquista
della Sicilia non fu contrastata decisamente poiché il potere centrale
pareva più preoccupato di difendere gli stessi Balcani insidiati
dall’espansione islamica (Gli arabi avevano, infatti, presa Creta nel
826). La presenza araba in Sicilia favorì anche sul continente la
diffusione di truppe mercenarie nordafricane al soldo degli stessi duchi
bizantini. Questo comportò una convivenza non sempre facile fra le
milizie saracene e le popolazioni locali. Doveva essere veramente
labile, sotto tutti i punti di vista, agli occhi degli abitanti la
distinzione fra l’arabo che piombava sulle coste calabresi per una
scorreria e quello presente più stabilmente “per lavoro”, come
mercenario militare. Si tratta, comunque, del segno di una situazione
forzatamente “multietnica”, diremmo con parole d’oggi, ma resa ancor più
precaria dai rapporti altalenanti dei bizantini con i principati
longobardi (oscillanti fra atteggiamenti di vassallaggio e di rivalità
con il mondo bizantino). Questi erano, infatti, presenti nello stesso
Mezzogiorno ed anche alle loro dipendenze operavano spesso milizie di
ventura saracene confondendo ulteriormente lo scenario.
Sotto il profilo politico, nonostante la
caduta della Sicilia, la Calabria continuò ad essere ad essa assimilata
sino al X secolo. Solo allora l’amministrazione bizantina inizierà a
riconoscere “ufficialmente” la sconfitta siciliana ed a varare il Tema
tis Calavrìas. D’altra parte l’amministrazione del Tema di Calabria non
si presentò facile per i bizantini. Le lunghe coste della regione erano
quasi impossibili da controllare tutte e le incursioni saracene erano
continue e devastanti. La presenza araba in Calabria, per tutto il
periodo bizantino assunse probabilmente anche caratteristiche pressoché
stanziali. Le milizie di ventura saracene significavano anche
l’aggregazione di vere e proprie comunità legate alla loro attività.
Reggio Calabria deve essere stato a lungo una città multilinguistica e
multireligiosa con elementi latini, greci ed arabi e con forme di culto
differenti che convivevano di fatto. Toponimi stessi come quello del
paese aspromontano di Bagaladi si potrebbero far risalire a forme arabe
come Baha Allah (Benedetto da Dio).
Alla fine del IX secolo Reggio,
riconosciutamente capitale religiosa della Calabria, fu elevata al rango
di metropoli. Tale Leone o Leonzio, è menzionato come metropolita al
sinodo costantinopolitano del 879/880. L’ascesa di “prestigio” della
Calabria fu, probabilmente, anche dovuta alla progressiva perdita del
Tema di Sicilia, sino alla rovinosa conquista e saccheggio di Siracusa
da parte degli arabi nel 878. Quando ciò era possibile, la politica
bizantina faceva coincidere la capitale di un Tema ad un centro
spirituale. Così Reggio divenne epicentro spirituale di gran parte della
Calabria. Sue suffraganee erano le sedi episcopali di Vibo, Taureana,
Locri, Rossano, Squillace, Tropea, Amantea, Crotone, Cosenza, Nicotera,
Bisignano e Nicastro. Nello stesso periodo nella Calabria settentrionale
sotto la metropoli di Santa Severina erano riunite le diocesi
suffraganee di Umbriatico, Cerenzia, Isola Capo Rizzuto e Gallipoli. La
presenza di questa diocesi pugliese, lontana via terra ma non
altrettanto via mare, era dovuta probabilmente alla necessità di
subordinare alla più vicina nuova diocesi una città ricostruita e
ripopolata recentemente per ordine di Basilio I dopo le devastazioni
arabe. Naturalmente tutta quest’attenzione da parte dell’Impero alla
buona organizzazione delle diocesi di rito greco va ricondotto al
secolare braccio di ferro fra Bizantini e Papato. Entrambi giocavano a
mantenere la giurisdizione sulle proprie diocesi in una continua
contrapposizione fra rito romano e orientale e naturalmente miravano ad
acquisirne altre.
A tale complessiva riorganizzazione della
Calabria e della Puglia sotto Basilio I, si deve anche l’operazione di
ripopolamento delle province stremate demograficamente dalle guerre con
gli arabi. Ripopolamento parzialmente conseguito con immigrazioni
forzate di servi orientali e nel caso della Calabria anche con congrui
contingenti militari armeni. Oltre che varie tracce nell’onomastica
calabrese, di questa immigrazione permane il toponimo di Rocca Armegna,
in italiano Rocca degli Armeni. Il paese fondato con l’insediamento di
un contingente militare armeno ebbe per alcuni secoli importanza
strategica grazie all’imponente castello. Fu abbandonato dagli abitanti
solo ai primi del ‘900. La deportazione di popolazioni barbare o servili
era un’antica tradizione del mondo bizantino. Spesso ove necessitavano
contadini/soldati, nelle zone di frontiera o a rischio militare l’Impero
provvedeva con questo strumento a rafforzare la propria presenza.
Questo, verosimilmente, costava meno dell’invio di milizie dalla
capitale. D’altra parte, la disponibilità militare di Bisanzio verso i
suoi confini occidentali fu sempre molto più debole rispetto alla
maggiore attenzione dedicata ai confini asiatici e balcanici. La stessa
ricca Sicilia venne persa per queste ragioni. I nemici del momento,
arabi, longobardi o normanni che fossero venivano tenuti a bada più con
la diplomazia e la corruzione o il versamento di tributi talvolta anche
molto pesanti che con il vero e proprio ricorso alle armi.
Come in tutto il mondo bizantino, la
spiritualità aveva un ruolo centrale nella vita sociale e culturale. Il
monachesimo greco, essenzialmente laico, ne fu il motore principale. Per
ogni ceto sociale, dai nobili ai contadini, il monaco rappresentava, nel
mondo bizantino, un vero modello esistenziale. Anche in Calabria, come
in tutto l’Impero, fu elevato il numero dei monasteri privati costruiti
spesso nei luoghi più impervi ed inaccessibili per garantire
l’isolamento e la quiete che i monaci cercavano. Esempio più alto del
monachesimo calabrese è senza dubbio la figura carismatica di San Nilo
di Rossano. Di alta levatura morale e raffinata cultura egli godette di
una certa fama ed autorità già in vita nonostante il grande rigore della
sua scelta ascetica. L’agiografia monastica calabrese sotto i bizantini
è ricchissima tanto da far meritare alla regione l’appellativo di
aghiotokos ovvero “madre di santi”.
Sotto il profilo economico la coltura del
gelso era senza dubbio quella più redditizia in Calabria. Si trattava di
gelsi da foglia piuttosto che da frutto, “mirati” alla sericoltura. La
coltivazione di questa pianta subordinata a lunghi tempi di attesa prima
di essere redditizia (circa 10 anni) era soprattutto nelle mani della
Chiesa e dunque dell’Imperatore poiché nel mondo bizantino produzione e
smercio della seta erano rigorosamente controllati dallo Stato. La
presenza documentata di migliaia di alberi produttivi ci restituisce
un’immagine della Calabria bizantina come in realtà molto ricca più che
depressa dalle guerre e dagli scontri continui con gli arabi come nei
luoghi comuni storici.
A livello commerciale il Tema bizantino di
Calabria ebbe solidi rapporti con la Sicilia araba che costituiva
mercato per le sue sete. Tant’è che invece del Nomisma circolava il
Tarì, moneta araba battuta in Sicilia. C’è in ogni caso da notare che il
Tema bizantino pagava anche agli scomodi vicini un pesantissimo tributo
annuale in cambio della limitazione di razzie e scorrerie.
In epoca bizantina va rintracciata la radice della tendenza allo
spostamento degli insediamenti dal mare alla montagna per motivi sia
difensivi sia di salubrità data la condizione di palude di buona parte
delle zone costiere. Questo è rimasto sino ad ora un aspetto
caratterizzante del paesaggio antropizzato in Calabria anche se proprio
nel XX secolo si è assistito al processo opposto: l’abbandono dei siti
interni per quelli costieri più facilmente raggiungibili.
Nuovi e decisivi protagonisti sulla scena storica del Mezzogiorno
bizantino sono i Normanni. Giunti inizialmente come milizie di ventura
nei primi anni del sec. XI, i cavalieri del Nord intrapresero la
conquista sistematica sia dei temi bizantini sia della Sicilia araba
debolmente retta dai Kalbiti. Gli eventi precipitarono anche in
relazione al grande scisma del 1054 che separò la chiesa
costantinopolitana da Roma. Ciò sancì il sostanziale appoggio del Papa
ai Normanni contro i Bizantini scismatici. Inoltre Roma, da tre secoli,
non si rassegnava alla perdita delle diocesi siciliane e calabresi poste
sotto il controllo diretto di Bisanzio. Di queste e da sempre meditava
la riconquista. Nel 1059 Roberto il Guiscardo prendeva Reggio e nel 1071
con la caduta di Bari si poteva considerare concluso il dominio politico
dei bizantini sul Sud d’Italia e l’inizio della massiccia latinizzazione
del culto e della lingua, specialmente in Calabria e Sicilia.
Mille anni di lentissimo declino della
Grecità in Calabria.
Sta di fatto che la latinizzazione
religiosa che era stata più rapida altrove trovò in Calabria una certa
resistenza, addirittura apparente protezione presso i nuovi padroni
normanni. Attenzione però a non immaginare una sorta di mondo bizantino
intatto “senza Bisanzio”. Già sotto i normanni se per alcuni decenni
l’aristocrazia culturale greca in tutto il Sud Italia e in larga parte
della Calabra otterrà un certo rispetto, dall’altra parte, in modo
irreversibile, inizia la crisi del mondo ellenofono. I normanni stessi
impiantavano esclusivamente nuove diocesi latine. Per motivi di
prestigio, per non essere socialmente declassato, il clero greco si
latinizzò. I bizantini, dunque, non sbagliavano a considerare strategico
il legame fra centri politici e centri spirituali. La rarefazione dell’ellenofonia
in Calabria può così essere parzialmente dovuta alla progressiva
latinizzazione delle diocesi. Come osserva Vera von Falkenhausen, alla
fine del periodo Svevo gli ellenofoni superstiti erano in genere
contadini analfabeti incapaci di gestire le istituzioni religiose ed
economiche greche. Sostanzialmente la cultura greca cambiò collocazione
a tutto suo svantaggio. Da cultura dominante divenne cultura subalterna,
sempre più legata ai ritmi ed alle funzionalità di un mondo interamente
orale come quello pastorale e contadino. La latinizzazione che diverrà
vorticosa dal XV secolo in poi verrà sia incoraggiata dall’avvicendarsi
di dominatori di sicura fede romana (Angioini, Aragonesi, Spagnoli) sia,
alla fine, dallo stesso clima della Controriforma.
La presenza di comunità ellenofone, per
quanto subalterne continuò ad avere un suo ruolo nel contesto
mediterraneo. La Calabria meridionale era ancora sostanzialmente
ellenofona ancora fra il XIV ed il XV secolo. Tutt’oggi fortissime sono
le tracce di questa presenza linguistica e culturale nella
toponomastica, nell’onomastica, nel cosmo etno-antropologico, nei
dialetti romanzi stessi di tutta la regione ma in particolare nel suo
segmento centro-meridionale. Sino a quando sopravvisse l’Impero
d’Oriente, sotto i Normanni e poi con Federico II sino a circa al 1600
probabilmente i rapporti intermediterranei fra ellenofoni ”d’occidente”
e madrepatria linguistica rimasero in qualche modo attivi, favoriti
anche dai commerci delle repubbliche marinare e dalla continua attività
dei marinai greci. Non si può, inoltre, escludere una certa quantità di
migrazioni verso occidente dai Balcani e dalle Isole greche che andarono
a rimpinguare la presenza ellenofona in Calabria, in particolare nel
periodo di massima pressione turca. La spinta turca sui Balcani e sul
Mediterraneo continuò nonostante il freno posto dalla storica sconfitta
di Lepanto ad opera della flotta “cristiana”(1571). Alcuni decenni dopo
Cipro, anche Creta nel 1669 cade dopo un assedio che durava dal 1644.
Come dato di fondo non bisogna trascurare che storicamente l’Italia (ed
il particolarmente accessibile Mezzogiorno) è sempre stata vista dai
popoli balcanici come sponda utile in gravi momenti di crisi. Si pensi
all’epica migrazione degli Albanesi di Skandeberg come alle recenti
ondate di immigrazioni clandestine.
A proposito della lunga resistenza del
rito greco in Calabria, sta di fatto che l’ultima diocesi orientale a
cadere fu proprio Bova (Vùa) nel 1572. La romanizzazione, ironia della
sorte, avvenne proprio per mano di un vescovo di origine cipriota e
dunque egli stesso orientale, Giulio Stavriano. La comunità locale si
vide privata del rito greco con un vero e proprio colpo di mano con il
quale da un giorno all’altro venne instaurato quello romano.
(Vai
al Capitolo 4)
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